Anche Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, intervistato dalla Stampa, evidenzia che “l’Europa non sta dimostrando la stessa condivisione di intenti della crisi pandemica. Sono otto mesi che Draghi cerca di cucire a Bruxelles una opzione coordinata. Ma per veti nazionali, l’Europa solidale dell’energia non è ancora nata”. E il Centro studi di via dell’Astronomia ha lanciato l’allarme: complice il rialzo dei prezzi energetici, nel 2023 si rischia di avere una crescita zero, anziché un Pil positivo, seppure dello zero virgola.
Gustavo Piga, professore di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, ricorda che “se si guarda alla storia delle unioni monetarie e fiscali composte da Stati eterogenei tra loro c’è sempre un momento di transizione, di interregno, in cui si fa fatica e la leadership centrale non riesce a rappresentare gli interessi di tutti, perché non si è ancora uniti culturalmente. Io credo che in un momento di crisi se in un’unione non ci sono gli strumenti centrali per affrontarla bisogna lasciare spazio alle politiche autonome”.
Può spiegare meglio cosa intende dire?
Che finché l’unione culturale non si sedimenta e si cementa nel tempo, grazie a scambi culturali e commerciali, a esperienze di vita insieme, a ogni singolo Stato andrebbe lasciato, come del resto avvenuto negli Stati Uniti del 1800, uno strumento fiscale a disposizione immediata da utilizzare in caso di crisi. In Europa siamo entrati invece in questa folle logica per cui non ci sono strumenti centrali, ma nemmeno un’autonomia degli Stati.
E questo alla fine pesa sui cittadini e sulle imprese che rischiano di affrontare una crisi senza sostegni…
Chi ci perde non sono solo i cittadini e le imprese, ma anche la credibilità e la stabilità del progetto comune. Che senso ha, infatti, se fa stare peggio di quanto si starebbe da soli? Per questo i tedeschi, dal mio punto di vista, hanno fatto bene a decidere di stanziare 200 miliardi contro il caro energia.
Anche perché la Germania non ha un debito pubblico come il nostro.
Non è che se si ha un debito pubblico elevato non si può essere autonomi di fronte a una crisi. Occorre trovare una soluzione.
Finora la si è cercata, e la si sta cercando ancora, tramite la solidarietà europea.
L’Italia ha gli strumenti per affrontare la crisi, ma deve fare i conti con le regole europee che in parte glielo impediscono. Non c’è bisogno di solidarietà, ma di autonomia. Siamo ancora evidentemente colmi di stereotipi sulla diversità anche all’interno dell’Europa, per cui non si può ancora pretendere che vi sia solidarietà: è giusto che resti in piedi il progetto di vita comune, ma nel frattempo occorre “prendere tempo”, non possiamo pensare a una guerra civile come quella attraverso cui sono passati gli Stati Uniti, anche perché il progetto stesso di unione è nato per evitare nuove guerre in Europa.
Concretamente cosa significa questa autonomia?
Bisogna che gli italiani possano prendersi i propri rischi. Giorgia Meloni, tra le tante cose che dovrà fare se diventerà, come sembra, presidente del Consiglio, dovrà convincere i mercati, compito molto più difficile che per Scholz, che l’Italia può trovare le risorse per aiutare se stessa. Per fare questo non basta chiedere di poter avere un deficit su Pil più alto rispetto a quello concordato precedentemente, ma vanno aggiunte delle condizionalità interne: bisogna mettere a posto la nostra macchina di spesa, tramite un piano credibile, una riforma strutturale, complessa, lenta quanto si vuole, della Pubblica amministrazione, che farebbe guadagnare competitività anche al settore privato. Il nuovo Governo dovrebbe provare a cimentarsi in questa prova erculea convincendo l’Europa e gli italiani che fa sul serio rispetto a un cambiamento non tanto normativo, quanto organizzativo, strategico, culturale all’interno della Pa.
Come ha detto, però, occorre anche poter fare più deficit rispetto a quello previsto dal Governo Draghi.
Le stime del Centro Studi di Confindustria parlano di un’Italia a crescita zero nel 2023 e se lasciamo il deficit/Pil al 3,4% effettivamente questo può succedere. E questa performance negativa ci lascerebbe ancora più indietro rispetto al resto dell’Europa, che non andrebbe male quanto noi. Questo ha a che vedere probabilmente con le due facce della crisi italiana: una Pa che non riesce in questo caso a mettere a terra i progetti del Pnrr (con la Nadef abbiamo visto che tra 2021 e 2022 sono più di 20 i miliardi non ancora spesi) e l’austerità attuata tramite la continua riduzione eccessiva del deficit. Non è possibile che se l’economia del Paese peggiora non si metta in campo una politica fiscale anticiclica.
Si tratterebbe, in fondo, di chiedere maggior flessibilità all’Europa.
Occorre autonomia, non una flessibilità che viene decisa a livello centrale e quindi è antitetica all’autonomia. Sarà quindi molto importante vedere da quali numeri partirà il Governo Meloni per il 2023. Mi auguro che non lasci il deficit/Pil al 3,4%, altrimenti manderà un segnale chiarissimo.
Quale?
Che nel trade-off tra stare a lungo a palazzo Chigi o rischiare di starci poco tentando di cambiare le cose avrà scelto la prima opzione. Io spero che si prenda i suoi rischi cercando di convincere tutti che sta facendo la cosa giusta piuttosto che non fare nulla e copiare Draghi: in fondo Fratelli d’Italia ha avuto un mandato elettorale per fare cose diverse da quelle dell’attuale Esecutivo. Il nuovo Governo dovrebbe, quindi, prevedere il deficit/Pil per il 2023 almeno al 5% per tamponare il rischio che tantissime piccole imprese chiudano definitivamente come già accaduto nel 2010, 2011, 2012 e durante il Covid. Siamo un Paese martoriato dalle crisi perché non abbiamo uno strumento per fronteggiarle, questo alla lunga rischia di far saltare e il banco e l’Europa non se ne sta rendendo conto: non è che se fallisse anche la Meloni in Italia si tornerebbe a votare i partiti pro-Europa, anzi.
(Lorenzo Torrisi)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.