Non è la prima volta che sul tavolo dei leader Ue compare il dossier-eurobond. Di norma è accaduto, in ogni occasione, che venisse riposto rapidamente nei cassetti, se non proprio cestinato. È diventato proverbiale per anni il nein del falco per eccellenza: il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, che però nel frattempo è stato politicamente cestinato assieme all’intera parentesi dei governi Merkel.
Per la verità nell’ormai penultimo appuntamento – il varo del Recovery Fund – la Cancelliera si era congedata dalla “sua” Ue con un’apertura reale a titoli di debito europei, anche se ancora rigorosamente fuori nella tassonomia eurocratica e dopo un pressing forte guidato dalla Francia (pronta a lanciare “eurobond” con alcuni altri Paesi-membri). Il finanziamento dei 750 miliardi di resilienza e stimolo anti-pandemia ha dunque previsto l’intervento diretto dell’Unione, benché circoscritto a un passo di per sé eccezionale e senza il lancio formale della responsabilità comune del debito. Il tabù – in un’Europa guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen – sembra ora stato messo in discussione dal Cancelliere tedesco Olaf Scholz: già vice socialdemocratico della Merkel, ora alla guida di una coalizione con Verdi e Liberali.
Tutti i condizionali restano naturalmente d’obbligo ed è forte l’impressione di un passo tattico con fini distensivi dopo il pesante fatto compiuto riguardo i 200 miliardi di aiuti nazionali decisi unilateralmente da Berlino per fronteggiare l’emergenza energetica di famiglie e imprese tedesche. Il preannuncio generalissimo di un ammorbidimento del no stretto agli eurobond non giunge comunque sorprendente. La Germania è forse il Paese più colpito dal terremoto geopolitico causato dalla guerra ucraina, ma proprio per questo non può rinunciare al suo ruolo in Europa, che è sempre stato di leadership.
Non si può anzi escludere che la Ue “renana” sia a un nuovo “momento Hamilton”: la categoria usata dai politologi americani per le grandi svolte politico-istituzionali. Il precedente è vecchio ormai di oltre trent’anni: furono i mesi cruciali fra la caduta del Muro di Berlino e la forma dei Trattati di Maastricht. La riunificazione tedesca – merito indiscusso del genio autorevole di Helmut Kohl – fu “pagata” con l’adesione finale della Germania all’Unione monetaria: con il concambio fra marco ed euro.
Le nuove “unioni” sul tappeto sono ora quella energetica e quella della difesa comune. E mentre risuona l’ultima chiamata per gli eurobond, non è superfluo ricordare che il secondo trattato Ue (dopo quello fondativo di Roma nel 1957) fu siglato poco dopo la prima guerra (petrolifera) del Golfo e il crollo dell’Unione Sovietica.
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