Due macigni si sono già abbattuti sul cammino del Governo che ancora non c’è, uno esterno e uno interno. Cominciamo dal primo. Il Fondo monetario internazionale chiede “uno sforzo eccezionale sul debito” e invita a seguire le orme di Mario Draghi.
L’Italia “deve rimanere concentrata sulla sua linea di bilancio, abbassando il rapporto debito/Pil, come hanno fatto gli esecutivi precedenti, portando avanti in futuro uno sforzo fiscale più ambizioso, eliminando la spesa pubblica di bassa qualità e procedendo sulle riforme strutturali che sostengono la crescita”. Lo ha detto chiaramente Alfred Kammer, direttore del Dipartimento europeo del Fmi. Le misure di sostegno sono necessarie, ma “siano mirate, efficienti e vengano compensati nel bilancio dello Stato”.
Mentre arriva questa sentenza, scoppia il conflitto Berlusconi-Meloni, volano parole pesanti come pietre, esplosive come mine. “Arrogante, offensiva, prepotente, supponente, è una con cui non si può andare d’accordo”. Così Berlusconi nel foglio lasciato in bella vista, preda (o amo) per i fotografi. “Mi pare che tra quegli appunti mancasse un punto e cioè non ricattabile”. Così risponde Gorgia Meloni con una contraccusa sferzante. Come, quando e, soprattutto, a quali condizioni sarà mai possibile sanare una tale ferita?
La leader di Fratelli d’Italia ha vinto il primo round con Ignazio La Russa eletto anche contro Berlusconi e ha concesso a Matteo Salvini il Presidente della Camera: Lorenzo Fontana, il suo braccio destro, al di fuori di quelli che sembravano gli accordi raggiunti su Riccardo Molinari.
Ciò potrebbe far supporre un’incrinatura anche tra la Lega e Forza Italia, partiti che hanno sostanzialmente lo stesso peso nella coalizione.
La prova del nove verrà con la lista dei ministri che dovrebbe emergere in settimana prima che il Presidente Mattarella dia l’incarico formale a Giorgia Meloni che non molla su due passaggi chiave: nessuna pretesa di portare Licia Ronzulli al Governo e nessuna concessione alle richieste di Berlusconi a proposito della giustizia (dove in pole position c’è Carlo Nordio) e sul ministero dello Sviluppo al quale fa capo la televisione, dove sembra diretto Guido Crosetto. Una poltrona importante, ma scomoda: il Mise è diventato il luogo dei tavoli di crisi, un ministero che non ha molte risorse da spendere e sono per lo più destinate a tamponare difficoltà di breve periodo. Le posizioni più importanti in questa fase sono altre: il Mef, il ministero dell’Economia, e il Mims, il ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili. Al primo spetta subito varare la Legge di bilancio, al secondo attuare il Pnrr.
A palazzo Sella, dopo la serie di no e di veti che ha fatto cadere via via una mezza dozzina di candidati veri e un’altra mezza dozzina inventati, dovrebbe andare Giancarlo Giorgetti, esponente di punta della Lega. Al secondo si è candidato lo stesso leader leghista. Si dice perché così può dirigere le operazioni della Guardia costiera per bloccare i migranti, in realtà anche (e forse soprattutto) perché ci sono da spendere 200 miliardi di euro di qui ai prossimi anni.
Negli ultimi diciotto mesi alla guida del Mise, Giorgetti ha stretto un rapporto personale con Draghi che lo apprezza. Ma senza dubbio il ministero dell’Economia è il centro di tutte le tensioni, interne ed esterne. Ci sono domande e aspettative enormi e irrealistiche. Ieri da Capri i giovani industriali della Confindustria hanno chiesto condono fiscale, riduzione delle tasse, sussidi. Tutte le categorie sociali bussano alla porta del Tesoro e nessuna potrà essere accontentata del tutto.
Non basterà abolire il Reddito di cittadinanza, è quindi molto probabile che la prima scelta del nuovo ministro sarà aumentare il deficit. Si potrebbe rinunciare all’obiettivo del 3% fissato dalla Nadef come conseguenza di una crescita ancora robusta nella prima parte dell’anno, restando tra il 5% e il 6% come l’anno scorso: ciò consente di recuperare tra 25 e 30 miliardi di euro. Lo scostamento andrà contrattato a Bruxelles e fatto accettare anche a Francoforte. Con la recessione in arrivo in tutta l’Ue, ci sarà comprensione, tuttavia l’enorme debito non lascia molto spazio all’Italia.
A questo punto entra in scena il Pnrr e in particolare l’investimento in infrastrutture. Da lì potrà arrivare più occupazione e un sostegno ai redditi basato sul lavoro e sulla produzione di reddito privato, non sull’assistenza e la riduzione delle risorse pubbliche. Il 2022 è stato l’anno della progettazione, il 2023 sarà l’anno dei cantieri. I partiti che hanno vinto le elezioni a cominciare da Fratelli d’Italia hanno detto che vogliono rimettere in discussione il Pnrr anche se non hanno mai specificato come. Si possono allungare i tempi, già il Portogallo, che ha avuto molto meno dell’Italia, ha detto che ritiene troppo stretto il limite stabilito, cioè il 2026. Si sono manifestate infatti strettoie difficili da superare. Dopo decenni di ristagno della spesa per infrastrutture, sono arrivati i mega piani degli Stati Uniti e della stessa Unione europea che hanno fatto esplodere la domanda alla quale l’offerta non è riuscita a tenere dietro. Spostare in avanti i termini temporali consente di allentare anche la pressione inflazionistica. Altra cosa è rimettere in discussione le priorità.
C’è da chiedersi se Giorgia Meloni può davvero lasciare alla Lega due posizioni tanto importanti. Il capo del governo sarebbe preso in una tenaglia tra Giorgetti al Tesoro che regola i flussi monetari a breve e Salvini che li spende nel medio periodo. E così la vincitrice delle elezioni rischia di perdere la partita del Governo.
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