Ma sì, perché stupirsi? Dopo la scuola senza più filtri, senza possibilità di bocciare, senza doveri cui sottostare, dopo la scuola che impone astrattamente un’ora settimanale di educazione civica come se la conoscenza e il rispetto delle regole (quelle di civile convivenza, mica altro) non passasse già per sua natura da tutte le materie, toglie spazio alla cultura umanistica perfino nei licei per allargarlo alla cultura tecnica di ogni tipo, affoga in pigne alte così di documenti burocratici, dopo la scuola delle competenze che sovrastano le conoscenza e la riducono a surplus: dopo una scuola ridotta così, perché stupirsi se un docente viene aggredito (liceo scientifico di Bari, sei giorni di prognosi) dal padre di un’alunna che aveva ricevuto una nota per essere entrata in ritardo in classe e aver disturbato la lezione o se la preside viene insultata dai genitori di una studentessa (liceo scientifico di Latina, con intervento della Polizia) cui, come da regolamento, aveva sequestrato il cellulare?
Il fatto che entrambi gli istituti siano intitolati ad Ettore Majorana, uno che aveva fatto della scuola un luogo di studio e non di divertimento, è solo una (felice?) combinazione. Rimane il fatto che i due episodi, succedutisi a pochi giorni di distanza uno dall’altro, non sono isolati accadimenti da rubricare (è diventato un vizio) sotto la specie “postumi da pandemia”, ma la punta di un iceberg che galleggia sempre più grande e senza controllo verso lo sfacelo del nostro (ma probabilmente non solo il nostro, il che non ne fa un mezzo gaudio) sistema educativo. Famigliare prima ancora che scolastico. Senza che, a parte poche voci isolate che gridano come Giovanni nel deserto, la società nel suo complesso voglia prenderne atto.
Un solo esempio: da giorni i mass media e gli stessi politici eletti il 25 settembre scorso urlano ai quattro venti i nomi dei ministri papabili indicando anche i dicasteri più “importanti” fra i quali quasi mai viene inserito quello dell’Istruzione (al più quello dell’Università, che è faccenda molto diversa). Lo abbiamo scritto così tante volte che viene a nausea persino a noi stessi: senza bocciature (non per bastonare chi proprio non ce la fa, ma per educare chi non capisce che senza fatica non si cresce) la scuola non è una cosa seria. Lo ridiciamo mentre siamo convinti che indietro difficilmente si torna e che, quindi, la scuola continuerà a promuovere sempre e comunque (lo dicono i dati ministeriali).
Dunque quale la strada? Educare proprio per ridurre al minimo (che però deve rimanere) la possibilità di ripetere l’anno. Già, ma i due episodi sopra citati, che fra l’altro riducono l’insegnante a burattino da prendere a schiaffi come e quando si vuole (tanto ci sono mamma e papà a proteggere i poveri pargoli e poi, anche di fronte alle denunce, si sa come il più delle volte va a finire: a tarallucci e vino), con conseguenze devastanti sulla psiche del malcapitato di turno (per 2mila euro mensili a fine carriera), cosa insegnano?
Che ancor prima della scuola è la famiglia ad essersi sfasciata, a non saper più distinguere bene da male, a non saper più affiancare la scuola nell’arte antica e depressa dell’educare al rispetto verso se stessi e gli altri, specie se adulti e proprio perché adulti, verso i quali ci si può anche contrapporre (a volte si deve), ma con mezzi civili e rispettosi.
Facciamola breve e saltiamo i passaggi che i lettori del Sussidiario sapranno bene decifrare pur omettendoli per ragioni di spazio. Cito Susanna Tamaro ed il suo bellissimo Il diritto di crescere, il dovere di educare uscito da Solferino due anni fa: “In quell’epoca (si riferisce agli anni Ottanta, ndr), ben prima degli smartphone e dei tablet, qualcosa è cambiato: ha fatto irruzione l’intrattenimento. Sono arrivati i walkman e si è conclusa l’era del silenzio, l’era di stare sdraiati sotto il cielo stellato e perdersi nella sua scintillante immensità ponendosi domande”. Stringi stringi, sta tutto qui, walkman o cellulare che dir si voglia: nell’incapacità dell’ultima generazione (presa nel complesso, è ovvio, e complici gli adulti) di alzare gli occhi al cielo. Dio è morto, Leopardi è morto e anche noi non stiamo tanto bene.
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