Nei provvedimenti per il sistema formativo collegati al Pnrr e agli altri finanziamenti di sistema, largo spazio è dato – giustamente – all’obiettivo di ridurre la dispersione e in generale l’insuccesso scolastico e la scarsa qualità degli apprendimenti. Poco o niente si parla invece di un’effettiva realizzazione di quel sistema scolastico nazionale, istituito dalla legge 62/2000, che è composto di scuole statali autonome e di scuole paritarie. Perché metto insieme questi due temi? Non è che sto paragonando, come dicono gli inglesi, le mele con le arance?
Non è così: un sistema integrato, che valorizzi tutte e due le sue componenti, è un sistema “delle tre E”: efficacia, efficienza ed equità. In modo meno schematico, raggiunge risultati migliori, spende meglio i soldi dei cittadini e realizza un livello più elevato di uguaglianza. L’inefficacia, con tassi di abbandono e di analfabetismo funzionale superiori agli altri Paesi, va anche contro il principio di equità, perché i fenomeni negativi si accumulano in alcune aree del Paese e colpiscono fasce deboli di popolazione. Va anche contro il principio di efficienza, perché lo spreco non è solo di risorse umane, anche se questo resta l’aspetto più grave, ma anche di risorse economiche, in quanto tutti i soldi spesi per le persone che escono dal sistema senza preparazione, o senza titolo, vanno perduti.
La scuola italiana è un colabrodo che perde da tutte le parti, perché il suo modello organizzativo non è più capace di rispondere ai bisogni della popolazione: poteva funzionare in una società omogenea, non fortemente differenziata come quella attuale, in cui una risposta standardizzata è inutile, anzi dannosa (visti i dati sull’insuccesso) e lo sarebbe anche una risposta decentrata, ma sempre imposta dall’alto: l’unico modello funzionante, sulla carta e nei luoghi dove è stato adottato, è quello in cui le scuole sono realmente autonome, e possono quindi far fronte alla complessità della domanda, così come si presenta nell’area in cui operano.
Questa situazione, ovviamente, non è solo dell’Italia, ma l’eccessiva rigidità del nostro Paese ha avuto conseguenze negative: il sistema si è bloccato, o meglio è diventato (permettetemi l’autocitazione…) un sistema ingessato. La maggior parte delle altre nazioni occidentali ha capito che la pluralità dell’offerta ha due enormi vantaggi, il primo e più importante che risponde a una domanda sempre più differenziata rispettando il valore della libertà di educazione da parte delle famiglie, e il secondo che consente di spendere meglio i fondi pubblici. Come notava già parecchi anni fa Norberto Bottani, è possibile mantenere un finanziamento centralizzato solo abbattendo la qualità del servizio, e per l’Italia questo è sotto gli occhi di tutti.
Il problema che ci caratterizza è in parte storico, legato alla nascita di una nazione estremamente frammentata (per dire, al Congresso di Vienna parteciparono quattordici stati italiani…) in cui, letteralmente, gli abitanti di regioni diverse non si capivano fra loro, e in parte legata al rapporto fra i cattolici e lo stato sabaudo, che vedeva la scuola cattolica, che rappresentava in quegli anni la sola alternativa alla scuola statale, come oppositiva e potenzialmente “nemica”. Scomparsi o attenuati oggi questi due motivi, anche per la diffusione di una ampio settore non statale, ma anche non cattolico, il pregiudizio si articola in due direzioni:
– Le scuole “private” sono diplomifici, che vendono non formazione ma titoli. Un’indagine seria su questo variegato arcipelago non è mai stata fatta, ma tutti i gestori qualificati (compresi gli ordini religiosi) affermano che si tratta di una quota assai ridotta, localizzata e spesso con i caratteri di una vera e propria impresa educativa. Una valutazione più stringente porrebbe fine a questa scorretta estensione del pregiudizio all’intero sistema.
. La scuola paritaria è vista come “scelta dei benestanti”. Sembra irrilevante il fatto che questo è dovuto al sistema di finanziamento deciso dallo Stato, per cui solo chi può pagare la retta è libero di scegliere, e quindi, inevitabilmente, le scuole non statali sono frequentate in misura più che proporzionale da ragazzi di origine sociale medio alta, con famiglie che possono spendere cifre elevate per l’educazione dei figli, investendo per rinforzare sia la propria identità culturale che la propria posizione sociale.
Solo un finanziamento che riduca il peso dell’origine famigliare potrà cambiare questo stato di cose, contribuendo alla riduzione delle disuguaglianze e all’efficacia ed efficienza dei programmi di scelta, per cui ci auguriamo che il nuovo Governo capisca che si tratta non di “dare i soldi ai preti” ma di migliorare la qualità dell’offerta, con scuole il cui ruolo pubblico è riconosciuto dallo Stato, ma che sono più agili e offrono da sempre, grazie alla loro maggiore autonomia, modelli di buone pratiche organizzative e didattiche che contribuiscono alla qualità complessiva del sistema.
Possiamo aggiungere un ulteriore elemento che prende in considerazione, accanto alle competenze disciplinari, quelle competenze variamente definite come socio-emotive, o non cognitive, che sono essenziali per una crescita globale delle persone. Bene, ricerche compiute in molti Paesi, ma soprattutto negli Stati Uniti, mostrano che le scuole con una forte identità – la maggior parte delle paritarie – hanno effetti estremamente positivi sulla parte più svantaggiata della popolazione, cosa ben nota ai genitori, tanto è vero che la quota di ragazzi afro-americani che frequentano scuole cattoliche è, percentualmente, più del doppio dell’incidenza degli afroamericani fra i cattolici.
In conclusione, io ritengo che la piena realizzazione della L.62/2000, che prevede non solo il riconoscimento del ruolo pubblico della scuola paritaria, ma anche un finanziamento, ahimè residuale dopo aver finanziato le scuole statali, consentirà di valorizzare le caratteristiche di una scuola il cui valore non può essere giudicata dalla sua “capacità produttiva”, come scriveva Giorgio Chiosso, ma dall’essere “luogo di elaborazione della tradizione culturale”, basata su di un tessuto di valori che è la premessa del bene comune. I ragazzi devono essere formati alla responsabilità, al rispetto delle regole, alla costruzione delle relazioni: non basta, per questo, costruire palestre o servizi di trasporto, che pure ci vogliono, occorre una politica educativa di largo respiro e con un orizzonte temporale che vada oltre i tempi brevi di una legislatura.
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