Il consiglio più azzeccato a Giorgia Meloni è arrivato da Gianfranco Fini, nella sua prima intervista tv dopo un lungo silenzio: deve essere paziente e abile nello sforzo di tenere tutti insieme, perché questo è un governo di destra-centro, e gli alleati sono in agitazione di fronte al ribaltamento di forze: Berlusconi, che ha perso il bastone del comando, ma anche Salvini, che lo ha detenuto per un tempo politicamente brevissimo.
Il primo passaggio in cui questo esercizio di pazienza dovrà appalesarsi sarà la partita dei viceministri e dei sottosegretari. Si chiude oggi, nel consiglio dei ministri convocato all’ora di pranzo. E ha un bel dire il ministro Ciriani, secondo cui le frizioni sono normali e siamo ormai agli ultimi dettagli. Da sempre i posti di sottogoverno scatenano appetiti formidabili, ancor più oggi, alla luce del taglio dei parlamentari: per chi non è stato ricandidato, o non è stato eletto siamo alla campanella dell’ultimo giro. O sei dentro, oppure ti rassegni a un lungo periodo di marginalità.
In questa contesa, per di più, ci sono certamente velleità di riequilibri, invocati da chi, Forza Italia in testa, non è rimasta completamente soddisfatta dalla composizione del governo. Brucia ancora a Berlusconi il no a due ministeri ritenuti chiave, Giustizia e Sviluppo economico. Per di più ci sono una valanga di linee di fratture da tenere a bada fra le fila degli azzurri: Sud contro Nord, renzulliani contro fedelissimi di Tajani, donne che reclamano spazio, e chi più ne ha più ne metta.
Forte il forcing made in Sud per Giuseppe Mangialavori, medico alla seconda legislatura, mai inquisito, ma sfiorato da indagini. Da Forza Italia calabrese si parla di “macchina del fango”, toccherà alla Meloni sbrogliare la matassa. Altri nomi berlusconiani che girano sono quelli di Sisto per la Giustizia, Barelli per gli Interni e Valentini per il Mise. E poi Perego alla Difesa, Casasco per il Mef, e le onorevoli Siracusano, Bergamini e Savini. Barachini dovrebbe subentrare al compagno di partito Moles per la cruciale delega all’Editoria.
In casa Lega si ventila un ritorno di Rixi alle Infrastrutture e di Molteni al Viminale. Fa discutere l’ipotesi di un rientro al governo di Durigon, dimissionario durante il governo Draghi. E poi Freni, Bitonci e Sasso. Per le quote rosa Borgonzoni e Gavia.
Quanto al partito della Meloni, Ferro e Frassinetti sono presenze femminili date per sicure, mentre nomi di peso sono quelli di Bignami, destinato allo Sviluppo economico, Del Mastro alla Giustizia, Leo al Mef e Cirielli agli Esteri.
Ma nel primo consiglio dei ministri di domani la Meloni intende dare un segnale di un governo già al lavoro, anche se i provvedimenti più attesi in questa fase, quelli contro il caro-bollette, non sono ancora pronti. C’è da intervenire in materia di giustizia, con un decreto legge che salvi l’istituto dell’ergastolo ostativo e un rinvio di due mesi per la riforma del processo penale targata Cartabia per consentire l’adeguata organizzazione degli uffici giudiziari. Ci sarà anche l’anticipo di due mesi della fine dell’obbligo del vaccino per il personale sanitario, tema controverso. Poi, fuorisacco, le norme anti rave party annunciate dal ministro dell’Interno, Piantedosi. Il tutto mentre Giorgetti al Mef accelera per la stesura della Legge di bilancio, che sarà il vero esame di maturità del neonato governo.
Meloni ed alleati sanno di doversi guardare in questa fase più dalle divisioni interne (e dai giudizi di Bruxelles) che dall’opposizione, divisa e litigiosa. Nel Pd è prevalsa l’idea di un percorso congressuale lungo, da qui alla metà di marzo, ma il primo banco di prova sarà a febbraio, quando (il 5 o il 12) si voterà per la Regione Lazio: il governatore uscente, Zingaretti, ha lanciato un appello a Letta, Conte, Calenda e Renzi, perché sia riproposta l’esperienza del “campo largo”, che ha sin qui retto l’amministrazione regionale della Capitale.
Ma le scorie della campagna elettorale sono tali che l’ipotesi appare ardua. Sulla carta il campo largo sarebbe in grado di vincere, stando ai voti delle politiche. Ma la sommatoria di tre opposizioni che il 25 settembre se le sono date di santa ragione appare improbabile. E ogni divisione farebbe il gioco di un centrodestra che nel Lazio già assapora aria di vittoria.
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