Thierry Guetta aveva un business e un’ossessione. L’attività era un negozio di abbigliamento usato. L’ha comprato a buon mercato e alcuni capi li ha venduti a un prezzo molto alto perché li ha etichettati come pezzi di design. L’ossessione era quella di registrare tutto ciò che accadeva nella sua famiglia, per strada, al lavoro. Quando ha iniziato a farlo, le videocamere erano ancora analogiche. Guetta conservava migliaia di nastri in un ripostiglio senza guardarli o classificarli. È così che, per caso, ha iniziato a registrare il lavoro degli artisti di strada. Per molto tempo ha cercato di intervistare Bansky e alla fine ci è riuscito. Bansky fece amicizia con Guetta e finì per raccontare la sua storia nel documentario Exit through the gift shop.
Guetta incarna bene l’interessante ambiguità in cui viviamo. Nel documentario spiega di aver registrato tutto perché aveva bisogno che il momento in cui viveva non si perdesse, non scomparisse per sempre. Un’aspirazione assolutamente umana, lontana dall’anoressia di sensazioni, realtà e significato con cui siamo soliti caratterizzare chi vive questo inizio di secolo. È vero che le fonti tradizionali di significato (conoscenza, potere, lavoro, famiglia, Chiesa e partiti) hanno smesso di funzionare come referenti e quasi nessuno vi crede più. Ma il bisogno che il momento non si perda, come altri, riappare ostinatamente.
Lo ha detto, come sempre lucidamente, la giornalista Rosa Montero nella sua rubrica domenicale: “Tutti viviamo con il bisogno di qualcosa. In effetti, si potrebbe dire che il bisogno, o i bisogni successivi, i bisogni insaziabili, sono l’essenza stessa degli esseri umani. Il bisogno di essere più amati, più ammirati, più ricchi, più potenti (…) È quell’ansia tenace, quell’inquietudine che ti spinge a fare di più, a essere di più, che devi vedere quali fardelli fa mettere all’ambizione di essere”. È un’ambizione che la giornalista stessa identifica come propriamente umana. La Montero non accetta la soluzione orientale di fronte alla “scala del desiderio” in cui non si raggiunge mai ciò che si vuole prendere. Non accetta come soluzione smettere di desiderare: “ma a me, figlia dell’Occidente quale sono, mi sembra che il desiderio sia vita”.
Il desiderio era vita anche per Guetta. Anche lui è stato spinto su una scala che sembrava non portare da nessuna parte. Gli uomini della metà del XX secolo credevano di aver risolto questo paradosso del desiderio facendo la rivoluzione: la rivoluzione sessuale, la rivoluzione dei movimenti sociali ben organizzati con il maggior numero possibile di seguaci per migliorare la vita sociale, per raggiungere la liberazione o la giustizia, per smascherare le menzogne del potere, per lottare per la verità dicendo le cose chiaramente, per recuperare valori sepolti dal relativismo. È stata la risposta parziale di qualche decennio fa che ora si danno solo i nostalgici della militanza. Non sembrano essersi accorti che l’uomo liquido trova queste formule letteralmente incomprensibili.
La parzialità della risposta al desiderio è ora diversa, ma condivide con quella di decenni fa la fuga verso il fare. Guetta crede di aver trovato la soluzione alle sue aspirazioni “diventando un artista”. In pochi mesi allestisce una grande mostra a Los Angeles con opere che produce industrialmente e che molti considerano plagio. Fare di più. O fare meno. Rosa Montero si impegna a “ridurre l’ansia, abbassando le rivoluzioni dell’entusiasmo”. Come se fosse possibile.
Il momento è ambiguo perché la chiarezza della necessità è accompagnata dalla soluzione parziale del fare, un fare ormai narcisistico, multitasking, con la mancata attenzione al capitalismo digitale. Un fare che spesso è “auto-sfruttamento” nel lavoro e nel tempo libero. In realtà, la ricerca della risposta nel fare nasconde una profonda pigrizia. C’è una buona pigrizia e una cattiva pigrizia. Come ha detto Evelyn Waugh con deliziosa ironia, “molti dei motivi che ci inducono a sacrificare il piacere innocente del tempo libero sono tra i più ignobili: l’orgoglio, l’avidità e, soprattutto, il desiderio di potere”. Potremmo usare un po’ della buona pigrizia che rallenta la corsa verso il nulla. L’altra pigrizia, quella cattiva, è definita da Tommaso d’Aquino come la tristezza di fronte al bene spirituale. Sotto il fare c’è spesso un rifiuto della gioia. Di quella gioia che dà riconoscere l’abisso della tenerezza manifesta e nascosta nel nostro desiderio. E in quello di Rosa e Thierry.
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