Tutti contro tutti: è una immagine desolante del fronte delle opposizioni quello che ci viene restituito dall’ultimo fine settimana. Dalle piazze per la pace, l’un contro l’altra armata, alla contesa per le prossime elezioni regionali, lo spettacolo è di quelli che possono far dormire sonni tranquilli alla Meloni e alla coalizione di centrodestra. Difficile che vi sia a breve un’azione coordinata fra partiti tutti impegnati a contendersi gli spazi politici, e non a sottrarne a chi ora siede al governo del Paese.
Il grande malato di questo fronte si chiama Partito democratico, uscito frastornato dalle urne, e ormai stretto in una morsa terribile: i grillini da una parte, Calenda e Renzi dall’altra. Uno scenario inedito a sinistra, con la diffusa sensazione che il maggior partito d’opposizione sia in questa fase incapace di dettare l’agenda, e sia costretto a inseguire quella imposta dagli altri. Un partito follower, non un partito guida.
Prendiamo il caso delle manifestazioni per la pace: il Pd ha voluto essere sia a Roma, sia a Milano. Risultato: Enrico Letta è stato contestato al corteo di Roma e sbeffeggiato dal palco a Milano. Ha dato l’impressione di stare tanto con chi sotto sotto si augura la resa dell’Ucraina, quanto con chi ne sostiene la resistenza. Forse non è esattamente così, ma in politica la chiarezza del messaggio conta. Chi sembra saperlo benissimo è Giuseppe Conte, che ha ormai sposato una linea “basta armi”, che ha reso irresistibile per i suoi detrattori rammentare le strizzate d’occhio al Cremlino.
L’accoppiata fra stop all’invio di armi e difesa a oltranza del reddito di cittadinanza costituisce un messaggio politico chiaro ed efficace, che ha rilanciato il Movimento. Lo testimoniano i sondaggi, che a soli 40 giorni di distanza dal voto fotografano i grillini appaiati ai democratici. Secondo alcuni istituti saremmo di fronte a un clamoroso sorpasso.
Con un gesto di coerenza Enrico Letta si è assunto la responsabilità della sconfitta, e si è dimesso subito dopo il voto. Ma la strada scelta per arrivare al congresso e all’elezione del suo successore è lunga, per molti troppo lunga. Con i tempi sincopati della politica di oggi da qui a marzo può accadere di tutto. E nel frattempo il vascello democratico appare un guscio di noce in mezzo alla tempesta. Rinviare di sei mesi le scelte di fondo appare pericolosissimo. Il dilemma è con chi i dem intendano costruire un’alleanza competitiva, posto che una unità che vada da Renzi a Conte sembra ancor più difficile oggi rispetto ad inizio agosto, quando naufragò.
Dentro il Pd si va da chi, come Goffredo Bettini, continua a vedere nel capo grillino l’interlocutore privilegiato, a chi, come gli ex renziani di Base riformista, di Conte e dei suoi non vogliono più sentir parlare, dopo la rottura sul governo Draghi. Anche per D’Alema (e per i rosso-verdi di Fratoianni e Bonelli) l’ex premier del governo giallorosso è molto più di sinistra di qualunque dem. Che alla fine prevalga Bonaccini, o Nardella, o Amendola, oppure la Schlein o la De Micheli poco cambia: risalire la china sarà durissima.
A complicare le cose per il Pd c’è anche il pressing asfissiante del Terzo polo, che ha scelte le imminenti regionali come nuovo terreno di scontro, con un’accelerazione perentoria, l’annuncio della candidatura di Letizia Moratti in Lombardia e la disponibilità sull’assessore uscente alla Salute Alessio D’Amato (capace esponente del Pd) nel Lazio. Soprattutto Calenda e Renzi chiedono ai democratici uniformità di alleanze. Inaccettabile, insomma, che i democratici possano essere alleati dei grillini a Roma e di Azione e Italia Viva a Milano. È esattamente quella libertà di azione sulla base delle specificità dei territori che rivendicano dal Nazareno, quindi la risposta al Terzo polo è stata picche: no alla Moratti, non ci faremo imporre niente.
Al netto di colpi di scena, possibili sino all’ultimo minuto, ci sono le premesse perché la saldatura delle opposizioni risulti impossibile, consegnando al centrodestra ottime chanches di vittoria in entrambe le regioni. Per il nuovo segretario del Pd, chiunque sia, vorrebbe dire ripartire sulle macerie. La traversata del deserto della sinistra rischia di essere molto lunga.
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