Ci sarebbe voluti due inglesi per tirare fuori Lou Reed, il simbolo vivente di New York, dalle nebbie in cui si era impantanato dopo la fine dell’avventura con i Velvet Underground e un primo disco solista fallimentare. Reed aveva messo tutto se stesso nel gruppo adorato da Andy Warhol e il fallimento commerciale e le dispute interne lo avevano profondamente debilitato, tanto che per un certo periodo aveva anche rimosso l’idea di fare il musicista, mettendosi a lavorare come impiegato in un ufficio. Ma, come avrebbe detto Brian Eno, per quanto i dischi dei Velvet Underground avessero venduto pochissimo, chi li aveva comprati ne era rimasto impresso in maniera indelebile. Uno di questi era l’astro nascente del rock inglese, David Bowie che aveva scritto dei riferimenti camuffati nelle note del suo disco Hunky Dory riferiti al “gruppo della banana” e che spesso dal vivo eseguiva due brani dei Velvet, White light/White heat e I’m waiting for the man. Fortemente appassionato della band americana era anche il suo chitarrista Mick Ronson, che avrebbe giocato un ruolo decisivo nella realizzazione di Transformer.
“Lou ci ha dato la strada e il paesaggio e noi lo abbiamo popolato” disse Bowie al riguardo. Ma definire Transformer un disco glam, secondo la moda del periodo storico in cui venne inciso, è decisamente limitante. Transformer, a differenza dei dischi di quel periodo, va oltre ogni moda e sonorità, suonando terribilmente moderno e perfettamente fruibile a ogni cambio generazionale. Si deve al genio di Mick Ronson che si occupò degli arrangiamenti e delle orchestrazione, cogliendo in pieno la poesia musicale dell’americano. Transformer porta a compimento brani che Lou Reed aveva già cominciato a comporre ancora ai tempi dei Velvet Underground, come Andy’s chest, e come Satellite of love mentre New York Telephone Conversation e Goodnight Ladies erano state suonate da vivo.
“C’è un sacco di ambiguità sessuale nel disco e due canzoni apertamente omosessuali, da me per loro, ma le parole sono state scelte con attenzione così gli etero possono non coglierne le implicazioni e goderne senza rimanere offesi” commento astutamente Reed, e mentre gli etero non si offendevano e compravano il disco, gli altri si godevano il fatto di essere, finalmente lì, “fuori dai nostri armadi, fuori nelle strade”. Come disse l’attivista e scrittore gay, Don Shewey, in relazione alla prima volta che ascoltò Transformer in quel 1972: “Mi aprì un mondo di possibilità e gli sarò sempre grato per questo”.
Lou Reed non esalta o celebra un particolare stile di vita: da buon cronista della realtà intorno a lui, lo descrive e lo riflette. Entra nei locali più squallidi e malfamati della Grande Mela, guarda cosa succede, ne rimane affascinato, ne rende atto, soprattutto coglie l’immensa tristezza di questi personaggi. Come dirà qualcuno commentando la galleria di ritratti delle drag queen, le stesse che frequentava Reed, fatta da Andy Warhol, “sembra che sorridano felicemente, in realtà la loro è una smorfia di dolore”. A differenza di Bowie o di Jagger che scalfiscono appena la superficie, Reed è parte di quella realtà. E la descrive in Vicious, un rock’n’roll d’assalto ispirato a una frase di Warhol (“Cosa intendi per vizioso?” chiese Reed; “Qualcosa come colpiscimi con un fiore”) che segna tutto il disprezzo del cantate per la cultura hippie. Reed celebra questo mondo fino ad allora nascosta in Make up (“stiamo uscendo fuori dai nostri armadi (…) Eyeliner, rosa canina e lucidalabbra, che divertimento sei una ragazzina intelligente rossetto e colorante, incenso e ghiaccio, profumo e baci, ooohhh, è tutto così bello sei una ragazzina intelligente”). Una appropriazione orgogliosa, “uscire dagli armadi” è fare coming out, come si dice oggi, e se quesa è l’apparenza, deprimente è la conseguenza. Walk on the wild side, ai tempi non capita da nessuno con quel linguaggio così bizzarro nascosto da una melodia accattivante, è una galleria di personaggi, omosessuali, travestiti (“Si rasò le gambe e quindi lui diventò una lei”) che vivono nei bassifondi, costretti ad atti sessuali espliciti, a drogarsi per mantenersi in piedi. E’ il lato selvaggio della vita e Lou Reed sembra celebrarlo come la liberazione tanto attesa, ma in quel lato selvaggio lui stesso rischierà di lasciarci la vita.
E poi c’è il desiderio di redenzione. “Just a perfect day, you made me forget myself. I thought I was someone else, someone good” (“Una giornata perfetta, mi hai fatto dimenticare di me stesso. Ho creduto di essere qualcun altro, qualcuno che è buono”). Chi non vorrebbe essere buono, almeno per un giorno? Forse nessuno in realtà, convinti che siamo già tutti buoni. Abbiamo ragione, sappiamo che fare, sappiamo come agire e distinguere il male dal bene. Almeno fino a quando la vita non chiede il conto e ci sbatte in faccia la realtà: che no, non è vero che siamo buoni, magari un po’, ma non lo siamo veramente. Chi non vorrebbe passare una giornata perfetta, dove ogni cosa ha senso e ci dà quella pienezza che in tutti gli altri giorni non riusciamo mai a toccare con mano? In Perfect Day, diventato uno dei brani più celebri della lunga carriera di Lou Reed e anche il più toccante, il più pietoso, il più empatico, la domanda si pone perché Lou Reed sa bene di non essere buono. Perfect Day è una ballata carica di tensione e di una dolcezza che appaiono a tratti insostenibili. Solo le persone oneste con se stesse possono ammettere di non essere buone e chi vive nel lato selvaggio della vita, sulla corsia di sorpasso, è spesso più onesto di molti altri: “Raccoglierai quello che hai seminato” dice Lou Reed al termine del brano.
È un giorno perfetto, una pausa nel caos della vita che corre impazzita. È un giorno perfetto. Tu sei in grado di farmi dimenticare di me stesso tanto da farmi sentire un’altra persona: qualcuno che è buono.
Nella canzone, nel modo pieno di malinconia con cui Lou Reed la canta, c’è anche una struggente sensazione di incapacità a far sì che tutti i giorni siano perfetti allo stesso modo. L’impossibilità a fermare il tempo, il senso di una sconfitta, umanissima e per questo tollerabile nonostante tutto. “Che giornata perfetta: sono felice di averla passata con te”: è solo la presenza di un altro, nello sguardo di un altro che possiamo sentirci consapevoli di essere qualcuno di diverso. Di essere buoni, per un giorno solo, perché è lì che tendiamo, consapevoli o meno: a una bontà che non abbia più fine. La stessa infinita dolcezza appare in Satellite of love, arricchita dalla voce di Bowie: “Lui ha un senso melodico che è ben al di sopra di chiunque altro nel rock’n’roll. La maggior parte delle persone non è in grado di cantare alcune delle sue melodie. Può davvero raggiungere una nota alta. Prendi Satellite of Love, nel mio album Transformer. C’è un parte alla fine in cui la sua voce sale così in alto. È favoloso” dirà Reed.
Un disco perfetto in un giorno perfetto, che si gioca in questa apparente contraddizione: perdizione nel lato selvaggio e redenzione in un giorno perfetto. Bowie e Reed non stavano giocando quando incisero questo disco, erano maledettamente consapevoli dello stato in cui si trovavano: “Qualunque società che consenta a gente come Lou e me di scatenarsi è bella che persa. Siamo entrambi molto incasinati, tipi paranoici – dei disastri ambulanti assoluti. Davvero non so cosa stiamo facendo. Se siamo l’avanguardia di qualcosa, non siamo necessariamente l’avanguardia di qualcosa di buono” dirà Bowie. Per Lou Reed era cominciata una camminata in qualcosa di selvaggio, molto selvaggio. Ne avrebbe pagato le conseguenze.