Quando Giancarlo Giorgetti – al suo esordio all’Eurogruppo come nuovo ministro dell’Economia – ha affermato una linea programmatica di “prudenza e realismo” per la gestione delle finanze pubbliche italiane, è probabile si sia riferito non solo alla Legge di bilancio 2023, ma al vero dossier sul tavolo Ue: la riscrittura del Patto di stabilità e crescita. Che – stando ad alcune anticipazioni – dovrebbe essere avviata già nei prossimi giorni con una prima presa di posizione da parte della Commissione Ue.
Si annuncia così un sicuro punto di svolta: a quasi tre anni dal primo tentativo di “rifondazione” della governance economico-finanziaria Ue per iniziativa franco-tedesca, ma soprattutto dopo il ciclone Covid, la sospensione temporanea dei parametri di Maastricht, il varo del Recovery Fund e infine lo shock inflazionistico e recessivo della nuova Guerra Fredda.
Lo scenario – in parte atteso – si presenta in chiaroscuro. La Commissione demanderà istituzionalmente ai “legislatori” dell’Europarlamento la fissazione delle nuove norme (verosimilmente: la ratifica delle modifiche al Trattato che verranno messe a punto dai Capi di Stato e di governo). Nel contempo Bruxelles tratteggerà però due binari di prospettiva. Il primo – di merito – delineerebbe fin d’ora una governance comunitaria più severa sui conti pubblici degli Stati membri: con stretti margini di scostamento rispetto ai parametri, sanzioni più aspre e soprattutto – per i Paesi “fuori parametro” – audizioni-processo presso il Parlamento europeo di sicuro impatto politico-reputazionale. È in questa sezione della bozza che comparirebbe, fra l’altro, l’ipotesi che un Paese molto indebitato sia chiamato ogni anno a ridurre di un ventesimo la differenza fra il rapporto debito/Pil e lo standard del 60% in vigore da trent’anni (sulla carta l’Italia dovrebbe ridurre per una decina d’anni abbondante di alcuni punti percentuali all’anno un debito/Pil oggi al 145%, rispetto al 94% circa della media eurozona).
Nel metodo, tuttavia, verrebbe lanciata una fase di transizione, si dice di quattro anni, anche se il termine (ricalcato sulla durata del Recovery Fund) appare vicino alle posizioni dei “falchi” e degli eurocrati. Qualunque sia l’orizzonte temporale, ciascun Paese-membro s’impegnerebbe a raggiungere obiettivi ad hoc: che oggi vengono negoziati anno per anno con le autorità Ue. Appare invece verosimile che il passaggio a Maastricht-2 veda entrare in scena un nuovo “ministro delle Finanze Ue” e che la definizione dei singoli target “strategici” sia oggetto di una trattativa politica al massimo livello: così com’è avvenuto per il Recovery Fund.
Non c’è dubbio che per l’Italia – cioè anzitutto per il Governo italiano, ma in realtà per l’intero sistema-Paese – si vada aprendo una lunga fase di “compiti a casa”. Diversi e forse meno rozzi rispetto al diktat unilaterale del 2011, ma forse più sfidanti. Sul tavolo non ci sarebbe più, all’osso, il sostegno ai Btp in cambio della riforma Fornero; ma la permanenza dell’Italia nell’euro in cambio di obiettivi economico-finanziari aggregati ben più complessi anche delle riforme offerte all’Ue in cambio dei fondiRecovery.
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