La Commissione europea ha presentato ieri le linee guida per la riforma del Patto di stabilità e crescita, con l’obiettivo di semplificare le regole, sostenere la crescita e migliorare la sostenibilità del debito dei Paesi membri. Viene, quindi, accantonata la necessità di ridurre di un ventesimo l’anno il debito/Pil eccedente il 60%, ma viene introdotta una nuova procedura che interessa in particolare quei Paesi, tra cui l’Italia, con un rapporto tra debito pubblico e Pil superiore al 90%.
Gli Stati dovranno concordare insieme a Bruxelles un percorso quadriennale di aggiustamento dei conti – un parametro cui si guarderà (oltre all’arcinoto 3% nel rapporto deficit/Pil) sarà la spesa primaria netta, al lordo quindi degli interessi sul debito -, che potrà essere eventualmente esteso di altre tre anni. Questi piani dovranno contenere anche riforme e investimenti pubblici che ci si impegna a implementare, sulla traccia di quanto avviene attualmente con il Pnrr. Con cadenza annuale la Commissione eserciterà una vigilanza sul rispetto degli impegni presi e ciò permetterà anche di intervenire in maniera preventiva con eventuali procedure di infrazione su deficit e debito e conseguenti sanzioni.
Cosa potrà comportare tutto questo per l’Italia? Abbiamo cercato di capirlo insieme a Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale.
Una proposta legislativa da parte della Commissione dovrebbe arrivare nel primo trimestre del 2023. Non è, quindi, facile capire ora quali possano essere i pro e i contro per il nostro Paese di questa ipotesi di riforma…
Credo sia importante cominciare dalle premesse che hanno ispirato la proposta della Commissione. Come ha sintetizzato il Commissario Paolo Gentiloni, l’obiettivo era di arrivare a un’impalcatura di regole che incoraggiasse la crescita economica e la sostenibilità fiscale dei Paesi membri; rafforzasse l’ownership delle autorità nazionali nella formulazione delle politiche fiscali; e, infine, semplificasse il complesso di regole create a supporto del Patto di stabilità e crescita. Tutte premesse ampiamente condivisibili.
Restano i parametri di Maastricht. Ha senso basarsi ancora su di essi dopo tutto quello che è successo in questi anni e che di fatto spinge alla riforma del Patto? Quanto le nuove regole potranno essere più chiare di quelle attuali?
Effettivamente restano i famosi parametri di Maastricht che tutti, compresa la stessa Commissione, valutano non più attuali e rilevanti. Non vorrei, tuttavia, che la persistenza di tali parametri distogliesse l’attenzione da elementi forse ancora più rilevanti che contraddistinguono la proposta della Commissione, elementi rilevanti soprattutto per il nostro Paese e che meritano una riflessione adeguata. Il primo, per esempio, è quello di adottare un approccio basato sul rischio nell’attività di sorveglianza che condurrà la Commissione. In sostanza, quest’ultima si concentrerà sui Paesi a elevato debito, quindi l’Italia ne sarebbe, per così dire, il principale beneficiario. Il secondo è quello di non prevedere per gli investimenti, neanche quelli per la transizione ecologica, uno status particolare. Il pericolo è che si continui a comprimere questa variabile, come fatto peraltro sino ad ora, con grave detrimento per la crescita; in sostanza, l’opposto di quanto si vorrebbe ottenere.
Il cuore della riforma, per i Paesi ad alto debito, sembra essere un percorso quadriennale di riduzione del debito/Pil concordato con la Commissione. Di fatto si cerca di ripercorrere la strada del Pnrr, ma non c’è il rischio di guardare solo a un obiettivo, cioè la riduzione del debito, anziché concentrarsi sulla crescita, che è probabilmente il modo migliore per ottenere una traiettoria discendente del rapporto debito/Pil?
Il fatto che la crescita venga pesata al pari della stabilità rappresenta un obiettivo esplicito per la riforma dell’impianto esistente. La mia sensazione, ovviamente ancora preliminare, è che nella nuova proposta venga sì prevista la possibilità di considerare l’impatto di riforme e degli investimenti nel percorso quadriennale, ma, allo stato attuale, non è chiaro come. In altri termini, si prevede un negoziato bilaterale tra il Paese in questione e la Commissione, i cui margini di discrezionalità appaiono potenzialmente significativi in assenza di criteri adeguatamente articolati. Avrei preferito vedere, per esempio, un collegamento più stretto proprio con il Pnrr, codificando in maniera trasparente lo status che le riforme e gli investimenti previsti dal Piano avranno nella definizione dei parametri di sorveglianza e, nel caso, nel negoziato con la Commissione. Quello che appare chiaro, invece, è che i Paesi a elevato debito debbano procedere a una significativa riduzione. Su questo, ovviamente, nessuno può essere in disaccordo, ma rimane sullo sfondo il trade-off, ancora non perfettamente chiarito, rispetto all’ammontare di consolidamento fiscale richiesto nel più breve termine. Presumo che il dibattito che seguirà alla proposta della Commissione lo potrà meglio chiarire.
Se il piano deve essere concordato tra due organi politici (Governo di un Paese e Commissione) non c’è il rischio che sull’accordo possano pesare visioni o valutazioni politiche?
In assenza di criteri meglio e più chiaramente articolati, si rischia di politicizzare ulteriormente il perimetro attorno alle regole fiscali dell’Unione. Questo è inevitabile visto che già oggi ci sono due gruppi di Paesi, quelli fiscalmente solidi e quelli più fragili. Peraltro, non essendo previsti, allo stato attuale della proposta, meccanismi compensativi come un più stretto collegamento con il Pnrr o l’introduzione di una capacità di indebitamento comune, sia pure condizionata, l’ulteriore politicizzazione sulle regole fiscali e la loro applicazione sarà inevitabile. A maggior ragione, poi, visto che a fronte della flessibilità, per così dire, accordata ai Paesi, la Commissione invocherà una più stretta disciplina del nuovo impianto, rafforzandone l’aspetto sanzionatorio. Peraltro, l’avvio di un procedimento sanzionatorio a carico di un Paese membro è, come noto, incompatibile con l’attivazione del cosiddetto scudo della Bce. Quest’ultima decisione, già di per sé ampiamente discrezionale, a sua volta si verrebbe a basare, almeno in parte, su un elemento parimenti discrezionale, come sopra richiamato.
Il Patto di stabilità così com’è non ha funzionato. Ha senso riformarlo con regole mai collaudate prima senza fissare magari anche un momento di verifica per controllare di essere stavolta sulla strada giusta?
Questo è un aspetto dirimente che, in effetti, va chiarito. Non sarei contrario a una sperimentazione del nuovo impianto, con l’impegno a rivederlo alla luce dell’esperienza acquisita. Ancor prima, tuttavia, sarà necessario un confronto serrato con i Paesi membri che hanno il diritto, ma anche l’obbligo, di far valere le proprie osservazioni. Peraltro, il dibattito da cui scaturisce la proposta della Commissione presentata ieri è stato avviato sin dalla fine del 2019. Sarebbe interessante capire in che misura ne riflette l’input fornito dai precedenti Governi italiani. Sono certo che ci sarà l’opportunità di discuterne e di apportare dei miglioramenti, anche significativi, senza antagonizzare nessuno.
(Lorenzo Torrisi)
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