Accade sempre più frequentemente di imbattersi nel caso di conversazioni registrate all’insaputa dell’interlocutore. Un caso clamoroso balzato agli onori della cronaca risale a qualche settimana fa e riguarda l’ex Presidente del Consiglio Berlusconi, registrato a sua insaputa durante una riunione del gruppo di Forza Italia. Ma cosa succede quando si tratta di conversazioni effettuate tra colleghi sul luogo di lavoro? Si può registrare all’insaputa del collega o del capo o si corre il rischio di essere sanzionati, addirittura con il licenziamento?
Al riguardo, la Suprema Corte ha ripetutamente affermato che “la registrazione di conversazioni tra presenti all’insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza con conseguente legittimità del licenziamento intimato” (Cass. n. 11999/2018; Cass. n. 16629/2016; Cass. n. 26143/2013). Tuttavia, la Suprema Corte ha chiarito che la normativa sulla privacy (art. 24 D. Lgs. 196/2003) permette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. La registrazione di conversazioni all’insaputa dei colleghi o del capo diventa quindi possibile e lecita quando è strettamente finalizzata alla difesa di un proprio diritto e all’acquisizione di un mezzo di prova. Solo quando il lavoratore registri conversazioni audio o video mosso dal genuino intento di tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, minacciata dal comportamento dei colleghi o del capo, e dall’intento di precostituirsi un mezzo di prova a proprio favore, il comportamento del lavoratore non vale a legittimare il licenziamento da parte dell’azienda e neppure costituisce un illecito disciplinare sanzionabile con una misura conservativa. Le registrazioni effettuate all’insaputa dell’interlocutore potranno quindi essere validamente prodotte in giudizio e potranno costituire fonte di prova, ex art. 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa.
Si tratta evidentemente di un profilo estremamente delicato, che esige un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, entrambi costituzionalmente garantiti, quali la garanzia della libertà personale sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte, e del diritto di difesa, dall’altra. E il bilanciamento si deve fondare su una valutazione rigorosa del requisito della pertinenza, nella prospettiva di una “diretta e necessaria strumentalità” della registrazione all’apprestamento della finalità difensiva all’interno di una scrupolosa contestualizzazione della vicenda.
Sulla questione si è recentemente pronunciata la Cassazione con sentenza n. 28398 del 29 settembre 2022. Il caso sottoposto alla Suprema Corte era quello di un lavoratore licenziato a seguito di contestazioni disciplinari che il Tribunale e la Corte di Appello di Salerno avevano giudicato infondate e comunque inidonee a giustificare il licenziamento, essendo al più sanzionabili con una misura conservativa secondo le previsioni del contratto collettivo. La Corte di Appello di Salerno aveva respinto invece la domanda del lavoratore volta a far accertare il carattere ritorsivo del licenziamento. Secondo la Corte territoriale, il carattere ritorsivo del licenziamento non poteva considerarsi provato in base alle deposizioni testimoniali raccolte e le registrazioni prodotte in giudizio non sarebbero state idonee a costituire fonte di prova in quanto asseritamente “abusive e illegittimamente captate e registrate“. La Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza in quanto la Corte d’appello non aveva indagato (come avrebbe dovuto) sulla ricorrenza dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza ai fini della legittimità delle registrazioni di conversazioni tra presenti, non si era fatta carico del contemperamento dei concorrenti diritti fondamentali e non aveva fornito alcuna spiegazione della soluzione adottata: “adempimenti tanto più necessari in relazione alle difficoltà di assolvimento dell’onere probatorio gravante sul lavoratore che denunci la ritorsività del licenziamento intimatogli“.
Con sentenza n. 31204 del 2 novembre 2021 la Cassazione ha confermato invece la sentenza della Corte di Appello di Genova che aveva ritenuto: a) giustificato il rifiuto opposto dal lavoratore alla partecipazione a un corso obbligatorio di formazione, per l’esiguità del termine di preavviso (meno di due giorni), a fronte di un evento in orario diverso da quello ordinario e in una località a oltre cento chilometri dal luogo abituale di prestazione dell’attività lavorativa; b) consentita al lavoratore la registrazione della conversazione in presenza con il superiore gerarchico, in quanto finalizzata alla tutela giurisdizionale dei propri diritti, a fronte di una verosimile contestazione disciplinare per il suo rifiuto di partecipazione al suddetto corso obbligatorio.
Le fattispecie esaminate dalla Cassazione riguardano per lo più le registrazioni effettuate dal lavoratore. Ma, come precisato dalla Corte d’Appello di Milano con sentenza n. 369/2019, i principi sono estensibili all’altra parte del contratto di lavoro; e valgono quindi anche per il datore di lavoro che effettui la registrazione all’insaputa del lavoratore per finalità difensive. E così, la Corte di Appello di Milano ha ritenuto legittima la registrazione fonica dell’incontro di consegna della lettera di contestazione disciplinare a un dipendente, successivamente licenziato per molestie sessuali sul luogo di lavoro, in quanto effettuate al fine di tutelare un diritto, nella specie l’esercizio del potere disciplinare previsto dalla legge.
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