Zan, Zendegi, Azadi (Donna, Vita, Libertà): da otto settimane il popolo iraniano scende in strada noncurante della violenta repressione della Repubblica islamica che ha provocato più di 300 morti tra i manifestanti e quasi 10mila arresti. Una Repubblica islamica che, come ci ha detto in questa intervista il professor Pejman Abdolmohammadi, docente di lettere e storia nell’Università di Trento, “è incapace di rispondere alle richieste popolari perché vanno contro la sua stessa essenza, il suo Dna”.
Ecco perché si è arrivati al punto che il parlamento iraniano a stragrande maggioranza ha approvato un documento di condanna in cui i manifestanti vengono definiti “mohareb”, che nella legge islamica significa “nemico di Dio”, perciò passabili della pena capitale. Decine di manifestanti sono stati accusati di “diffondere corruzione sulla terra”, un reato anch’esso punibile con la condanna a morte. “Davanti a una protesta che non si ferma” ci ha detto ancora Abdolmohammadi “o il governo accetta le richieste e cade la Repubblica islamica, o si va incontro a una Piazza Tienanmen iraniana”.
Le proteste popolari in Iran non si fermano, i manifestanti cantano “questa non è più una protesta, è l’inizio di una rivoluzione”. È davvero così? Siamo davanti a una rivoluzione?
La protesta in atto ha assunto un consenso ampio, nazionale, trasversale. La leadership è femminile, ma c’è anche una forte presenza maschile, soprattutto di giovani. Le proteste durano ormai da otto settimane, ovviamente non tutti i giorni hanno la stessa intensità, ma da quanto abbiamo visto fino a oggi partecipano tanti strati sociali: dall’ordine dei medici agli avvocati, dagli sportivi ai giornalisti. C’è una partecipazione della società civile a largo raggio. Sono più di 140 le città coinvolte, e tra queste ci sono città piccole, medie, grandi, periferie e centro.
Da parte governativa vediamo una forte azione repressiva che però non ferma i manifestanti. Questo vuol dire che il governo sta ancora usando una mano leggera o che è in difficoltà a contenere le proteste?
La Repubblica islamica ha di fronte un movimento giovanile e femminile, ma non solo, che pone delle richieste precise che sono al di fuori della sua portata. Non chiedono riforme ma un cambiamento del sistema. Davanti a questa richiesta di diritti e libertà, se la Repubblica dovesse dire di sì andrebbe oltre il suo Dna. Il governo ha quindi davanti a sé un compito difficile, perché se dice di sì alle richieste va in crisi il suo sistema, che comunque ha una buona percentuale di sostenitori. Se invece va contro queste richieste è chiaro che deve utilizzare la repressione in piazza.
Dunque siamo al bivio?
Per adesso le aperture sono state pochissime. Per quanto riguarda la repressione non abbiamo numeri di cui possiamo essere sicuri. Da 50 giorni Internet è stato sospeso, un paese di 84 milioni di persone non è connesso con il mondo. Questa fa sì che abbiamo difficoltà a disporre di un numero preciso. Quello che ci dicono associazioni come Human Rights è che ci sono stati 350 morti di cui 50 minorenni e questo ci dice che c’è un numero di giovanissimi che scende in strada, e una decina di migliaia di arresti.
Il parlamento iraniano ha approvato un documento in cui si paragonano i manifestanti a nemici di Dio, per i quali è prevista la pena di morte. Significa che una Piazza Tienanmen iraniana è possibile?
Questo documento approvato con il voto di 227 deputati, una maggioranza assoluta, è un elemento molto importante. Vuol dire che la risposta della classe dirigente è una risposta rigida, non un dialogo di apertura. Sebbene ci siano state alcune dichiarazioni che hanno provato a essere distensive, sono state tutte molto formali e senza contenuti. Sì, la possibilità di una Tienanmen c’è, così come che i ragazzi abbiano successo. Non sembra che ci possa essere una compromesso.
L’Occidente sembra più preoccupato che si arrivi a un accordo sul tema del nucleare piuttosto che ai diritti umani, è così? Ritiene possibile che possano bypassare quanto sta succedendo pur di ottenere l’accordo nucleare che cercano?
La storia ci dice che tutti gli attori politici davanti ai propri interessi sono capaci di bypassare il rispetto dei diritti umani. Questo dipende da cosa c’è sul tavolo. Le libertà e i diritti umani sono strumenti di soft power importanti, ma molto spesso possono diventare strumenti di utilizzo politico. Più che i diritti umani, all’Occidente sta a cuore la questione geopolitica dell’area. La Repubblica islamica dal 2021 ha fatto una scelta di campo radicale dal punto di vista della politica estera, spostandosi totalmente ad est, mentre prima lo era solo parzialmente.
Ci spieghi meglio.
Vediamo questo spostamento con il mancato accordo sul nucleare, nel non seguire le aperture della Ue in un appoggio fortissimo alla Russia, ma anche in un appoggio economico della Cina. Non dimentichiamo l’accordo del marzo scorso, quello dei 25 anni, in cui l’Iran di fatto è diventata protegé, uno stato protetto dalla Cina. Non è un caso che Pechino e Mosca al Consiglio di sicurezza dell’Onu due settimane fa abbiano difeso l’Iran contro una condanna della repressione. C’è una clientelismo politico in atto tra i tre attori, uno regionale gli altri due globali, che va a favore dell’élite che governa il Paese. Questo fa sì che il cosiddetto mondo libero in questo momento non solo debba gestire la sua opinione pubblica su queste manifestazioni su cui è difficile chiudere gli occhi, ma anche una Repubblica che sembra non voler più dialogare con loro.
(Paolo Vites)
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