Una parola – contrazione – e una percentuale – 0,3% – turbano i sonni di Giancarlo Giorgetti e del Governo. Il sostantivo e il numero vengono dalle previsioni della Commissione europea. Il Prodotto interno lordo italiano che chiuderà quest’anno con una crescita del 3,8%, un po’ più delle previsioni, l’anno prossimo si fermerà allo 0,3%. Può darsi che i tecnici di Bruxelles si sbaglino, del resto troppe sono le variabili soprattutto internazionali per impedire che non ci siano errori; tutti noi speriamo che il 2023 non porti una vera recessione, sembra comunque certo che non sarà un anno di crescita e questo complica ancor di più la politica economica del Governo.
Prendiamo il superbonus. Il ministro dell’Economia dice che ha provocato un “buco” di 38 miliardi di euro al netto naturalmente degli imbrogli che sono ormai evidenti. Non è chiaro se le erogazioni finora effettuate sono tutte in deficit e non hanno contribuito minimamente a sostenere la produzione e l’occupazione. In ogni caso, ci sono impegni sulla carta per almeno altri 22 miliardi che andranno a pesare su un bilancio già privo di margini. Sia per un criterio di giustizia distributiva (il bonus ha favorito più i ricchi dei poveri), sia per tenere le finanze sotto controllo, è chiaro che il superbonus andrebbe ridotto drasticamente, al limite abolito. Ma ciò significa anche dare un colpo ai redditi e al lavoro. Gli inquilini protestano, le imprese di costruzione sono sul piede di guerra.
Un discorso simile si può fare per il Reddito di cittadinanza. Sappiamo ormai quali effetti distorsivi ha prodotto, senza contare i veri e propri abusi. Svincolato di fatto dalla ricerca di lavoro a differenza da quel che c’era prima, ha aggravato il divario tra domanda e offerta alimentando una sacca molto consistente di persone (molte di loro giovani) che vivono di assistenza e lavoro nero rinunciando a cercare un impiego regolare. Dunque, sia per equità che per esigenze di bilancio, andrebbe sostituito con strumenti a un tempo meno onerosi e più efficaci. Ma si può fare senza creare pesanti contraccolpi sociali e politici? Perché sia il superbonus sia il Reddito di cittadinanza si sono dimostrati veicoli di consenso elettorale non solo al Sud e non solo per il M5s.
Possiamo continuare prendendo in esame il fisco. La flat tax costa molto e favorisce il popolo delle partite Iva, sottraendo risorse per il taglio del cuneo fiscale che aiuta i lavoratori dipendenti e le imprese. Il presidente della Confindustria Bonomi non ha esitato a far sentire la sua voce. Ma sia la tassa piatta, sia il taglio ai contributi vanno ad aumentare il disavanzo pubblico, rendendo molto più complicato far quadrare i conti.
Giorgetti ha stanziato 9 miliardi di euro lasciati da Daniele Franco. Il primo provvedimento economico del Governo Meloni ha ricalcato il Governo Draghi. Era inevitabile e risponde a una prudenza senza dubbio lodevole. Niente colpi di testa, la sorte di Liz Truss è ben chiara davanti a tutti. Ma nello stesso tempo questa cautela è figlia della difficoltà di compiere scelte più efficaci. Per evitare una vera recessione occorre una politica espansiva e in mancanza di nuove risorse, bisogna concentrare quelle esistenti nelle misure più efficaci a contrastare la caduta della produzione e del Pil. Il sostegno ai redditi non può essere ridotto, ma va aumentato in modo consistente il sostegno agli investimenti produttivi.
Finora è sembrato che gli investimenti fossero un problema che spetta al Pnrr risolvere. Ma non è del tutto vero. Il piano convoglia la maggior parte dei fondi verso le infrastrutture, lasciando molto meno spazio alla manifattura. Eppure il successo di Industria 4.0 ha dimostrato quanto sia efficace intervenire sull’innovazione di processo e di prodotto. Il maggior volano allo sviluppo viene da qui. Con una crescita zero, un aumento del costo del debito e una domanda interna (investimenti più consumi) depressa, il bilancio pubblico è con le spalle al muro. L’inflazione aiuta perché riduce in termini nominali l’indebitamento sul Pil, ma la corsa dei prezzi nei prossimi mesi si fermerà anche per effetto della stretta monetaria, in ogni caso l’inflazione crea squilibri economico-sociali e quel che conta davvero è la crescita in termini reali, non nominali.
Non è facile uscire da questo circolo vizioso, forse il Governo farebbe bene ad ammettere le sue difficoltà, spiegare bene la situazione agli italiani e agli europei, aprendo a Bruxelles una seria trattativa per aumentare gli spazi nel bilancio pubblico. Un disavanzo del 4,5% come previsto dalla Nadef non sembra abbastanza. È possibile ottenere un margine maggiore concentrando le misure sull’aumento del Pil. Invece di interventi a pioggia per accontentare un po’ tutti (e mai davvero nessuno), occorre privilegiare la crescita. È, se vogliamo, la formuletta del debito buono, è la massima del buon senso economico: prima produrre poi distribuire.
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