Luigi Di Maio pare aver trovato un lavoro. L’inglese fluente, i ruoli di governo, la strenua difesa dell’istituzione europea hanno portato un semplice ragazzo di provincia ad ambire a un ruolo nella diplomazia mondiale. Ma Gigino, quello vero, è ben consapevole di dover tutto alla sua controfigura. Non il personaggio assennato e saggio degli ultimi dodici mesi, ma il furibondo barricadiero dei primi assalti verbali ai suoi attuali colleghi: i membri della casta. Di Maio ormai è soprattutto questo. Casta che si auto-promuove, che si coopta, che si sente arrivata a discapito di “chi non arriva a fine mese” perché in fondo si merita di essere povero.
È lui che viaggia in auto blu, su aerei di Stato, che gira sui voli privati “pagati con le tasse dei cittadini”. È lui il suo stesso nemico in grisaglia, che beve e mangia spuntini raffinati, che odia la pizza fritta e unta soprattutto ora che, finalmente, non servono più i voti di quei popolani sguaiati sui quali volava fintamente felice, con le braccia aperte, il sorriso finto, in campagna elettorale. Quel suo gemello, ormai morto, il suo clone, che ha ammazzato dopo essere stato partorito da un baccello come nei film di fantascienza. Uguale fisicamente ma diverso. Uno che ha cambiato più posizioni politiche che camicie, che ha sfruttato la rabbia, l’ha alimentata, se ne è nutrito per poi appollaiarsi lassù, in alto, come un pappagallo prezioso che non si sa che doti abbia se non di essere arrivato in cima. E ci è arrivato senza aprire i libri, senza dare prova di abilità, senza ottenere un solo risultato elettorale significativo.
Eletto sempre in collegi blindati, nel nome di Grillo, alla prima uscita tutta sua, alla ricerca di voti veri, è stato spazzato via. Prima si era appollaiato come una mosca cocchiera sui suoi mentori e colleghi, poi ha succhiato loro la linfa lasciando solo la carcassa e forte della sua capacità di dissimulare competenza, ripetendo ogni cosa che serviva in quel momento (dall’uscita dall’euro prima al panegirico dei nuovi datori di lavoro dì Bruxelles poi), quando gli è convenuto ha trovato un altro organismo ospite planando su Mario Draghi in modo felpato, divenendone scudiero, esegeta, ammiratore. E con la nuova opportunità che Mario, nuovo amico, gli ha aperto, lì farà di certo la sua trasformazione finale, da crisalide perenne, dopo qualche mese in Qatar alla corte degli Emiri.
Lì si compirà la sua ennesima magia trasformista. Si convertirà all’islam, prenderà tre mogli, e guiderà la jihad contro gli infedeli (noi), sarà lui che dirà di essere sempre stato musulmano, che non consentirà che il gas e il petrolio, dono ai suoi fratelli arabi, sia venduto agli impuri occidentali. Dirà che l’Europa è corrotta e che ha sempre ammirato il burqa come capo elegante per le donne. E infine troverà un avo che discende da qualche emiro nipote del Profeta (in fondo è il cugino di tutti) e finalmente verrà accolto nella famiglia reale come capo delle operazioni contro l’Unione Europea.
Ci pensino a Bruxelles. Finirà così. Con lui che toglie finalmente il vestito blu, indossa turbante e scimitarra e chiede agli altri, come al solito, di andare a fare la guerra mentre lui pensa a cosa fare dopo. Nel frattempo vede come si mette in India, da quelle parti ancora c’è molto da fare. Male che andasse pare che abbia anche una simpatia per Visnù, da sempre suo punto di riferimento. E poi un giorno, chissà, la Cina, la grande marcia, visti gli occhi orientali e la statura coerente. Nulla è impossibile per chi non soffre della sindrome dell’impostore. Perché Gigino ci crede davvero. Crede e sa che che siamo, in fondo, una massa di zii frustrati a cui serve un nipotino che li blandisce per regalargli un voto, una carezza, un euro per il gelato. Che poi si prenda quello che gli serve e si scordi di noi, fa parte del gioco. Del suo gioco.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.