Base logistica a Niscemi (Caltanissetta), varo dei barconi a Licata e partenza dei viaggi della speranza “andata e ritorno” da Gela per andare a prendere i migranti sulle coste africane e portarli in Sicilia. Stavolta però non sono organizzazioni extra-continentali per gestire il traffico di esseri umani, ma bande siciliane composte da italiani e tunisini.
Il sospetto c’era da tempo, ma tre anni di indagini della Questura di Caltanissetta hanno dimostrato che di fatto il problema dell’immigrazione clandestina non è soltanto una questione di criminalità nigeriana o africana. Ci sono anche gli italiani a gestire la fuga dei disperati e ad approfittare di loro.
A comandare era sì un tunisino, ma la logistica era tutta in terra di Sicilia. E l’organizzazione era ormai milionaria. Viaggi da 30 persone per volta, costo 5mila euro a persona pagati in anticipo o non ci si imbarca, per un incasso netto di 150mila euro ogni viaggio, 70mila dei quali introito netto per l’organizzazione dopo aver pagato gli schiavisti sulle coste africane, i costi di scafisti e imbarcazioni e così via.
Un business senza umanità e senza rischi: “se ci sono problemi buttateli a mare” erano le indicazioni dei vertici dell’organizzazione agli scafisti parlando dei migranti. Indicazioni registrate nei nastri delle intercettazioni telefoniche e ambientali che sono adesso nel fascicolo dell’inchiesta che ha portato a 12 arresti mentre 6 sono i latitanti.
Buttateli a mare perché “ormai hanno pagato” e dunque possono annegare senza che l’organizzazione subisca alcun danno. Buttateli a mare se restate in “panne” in mare aperto; buttateli a mare se vi intercettano. Insomma liberatevi di queste povere vite che sono solo pacchi ormai senza valore avendo già saldato.
Le indagini iniziano il 21 febbraio 2019 all’imbocco del porto di Gela dove si incagliava una barca in vetroresina di 10 metri con due motori da 200 cavalli, segnalata da un pescatore del luogo. Le immediate indagini condotte dagli investigatori della squadra mobile permettevano di appurare che quel natante era stato rubato a Catania pochi giorni prima e che erano sbarcate decine di persone presumibilmente di origini nordafricane.
Le prime attività investigative, frutto della conoscenza del territorio degli uomini della Polizia di Stato, consentivano di risalire ad una coppia di origini tunisine che favoriva l’ingresso irregolare sul territorio italiano, principalmente di cittadini nordafricani.
Alla fine la banda era composta da 11 nordafricani e 7 italiani, ma le basi logistiche tutte in Sicilia. L’associazione per delinquere aveva vari punti strategici dislocati in più centri siciliani come Scicli, Catania e Mazara del Vallo oltre Niscemi, Licata, Gela.
Per le traversate l’organizzazione avrebbe impiegato piccole imbarcazioni, munite di potenti motori fuoribordo, condotte da esperti scafisti che avrebbero operato nel braccio di mare tra le città tunisine di Al Haouaria, Dar Allouche e Korba e le province di Caltanissetta, Trapani e Agrigento, così da raggiungere le coste italiane in meno di 4 ore, trasportando dalle 10 alle 30 persone per volta.
Mentre si intensifica la guerra italiana alle Ong, si pone il problema di come evitare di lasciare in mano a organizzazioni criminali senza scrupoli il traffico della disperazione. Ma i criminali non sono sono a casa d’altri. Stanno anche in patria. La nostra.
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