La Conferenza episcopale italiana pubblica il primo rapporto della rete territoriale costituita dai servizi diocesani e interdiocesani per la tutela dei minori e dei vulnerabili. Un rapporto coraggioso e sorprendente in cui si apprende che nel nostro Paese, negli ultimi vent’anni, sono state denunciate all’ex Congregazione per la dottrina della fede ben 613 situazioni di abuso, molestie, manipolazione, esibizionismo, proposte indecenti. Ad essere coinvolti non sono solo sacerdoti ma religiosi, sacrestani, animatori, catechisti e insegnanti di religione.
Il dato, benché debba essere ancora approfondito dall’indagine predisposta dalla Cei, è stato commentato da monsignor Baturi, vescovo di Cagliari e segretario dei vescovi italiani, come sorprendente e trasversale, a dimostrazione della serietà con cui la Chiesa italiana sta affrontando il problema, senza tentennamenti o inutili ipocrisie.
La Chiesa, dunque, persegue la sua strada di purificazione: lo fa con intelligenza e trasparenza, introducendo tutti gli strumenti giuridici di cui dispone. Eppure, già altre volte lo si è sottolineato, le misure giuridiche non bastano. Un educatore, un cristiano con responsabilità educative, sa bene quanto il cuore si strugge tutte le volte che per strada si incontra un gruppo di giovani: come è possibile che quello che ha conquistato la mia vita li raggiunga, diventi la loro vita?
È la gratitudine per il dono ricevuto che tratteggia il cammino di chi educa. Come è possibile che questa gratitudine sia stata sostituita, nel tempo, dal potere sull’altro, dalla manipolazione, dal bisogno di dominio psicologico e corporale che queste vicende raccontano?
Il punto non è parlare degli abusi a partire da coloro che si sono patologicamente involuti in una vita che ha preso direzioni che solo Dio può davvero sanare; il punto è che l’abuso – il dominio psicologico sull’altro, la gestione delle relazioni con la grammatica del potere, la pretesa sulle coscienze e sui pensieri – è diventato in molte realtà l’unico modo di vivere la dimensione educativa della fede. È come se, ad un certo punto, l’uomo avesse pensato che Dio non avrebbe mai mantenuto la Sua promessa, è come se l’uomo avesse deciso di gestire lui – in prima persona – il regno di Dio. È forse questa la forma più perversa di ateismo, il modo più ignobile di nominare Dio invano: sostituire l’esperienza della fede, ormai arida e incapace di parlare al cuore, con l’esperienza del potere.
Siamo dentro ad un frangente della storia decisivo: la fine della cristianità è un fatto e sono in tanti quelli che sperimentano la tentazione di rispondere alle questioni della storia con l’affermazione rinnovata di un potere, con la costruzione di un sistema di relazioni capace di condizionare la società e ridare alla Chiesa smalto ed energia. Gli abusi ci raccontano la storia di un cristianesimo senza Cristo, senza la Sua Presenza che capovolge la storia e sempre ricomincia, una storia in cui tutto è nelle mani dell’uomo, della sua abilità nel dominare, nel manipolare, nel blandire e governare gli altri. Si fa largo un cristianesimo senza dramma, un cristianesimo che ha chiuso le domande dell’esistenza in un recinto ideologico di risposte precostituite.
Come fa male, invece, la ferita della morte che arriva, del peccato che non passa, della vita che non si addomestica. Una fede che non risponde a questo dolore indomito, una fede che non fa i conti con l’amore, è una fede che muore tra i soldi e le mutande. Gli abusi non sono una parentesi nel grande alveo dell’umanità: gli abusi sono come la profezia al contrario di quel che succede quando Dio smette di essere il tormento dell’Io, la grande occasione di un uomo bisognoso di tutto, e finisce per diventare un fantasma, un uomo del passato, Uno da pensare col cinismo di chi non ha più nulla nel cuore. Solo tanta rabbia e una delusione pronta a diventare funesto appetito di dominio, prodromo di ogni abuso.
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