L’autunno nella storia dell’uomo è il periodo della vendemmia, delle castagne, del mettere fieno in cascina per prepararsi ai prossimi rigori dell’inverno. Da decenni è il tempo delle manovre finanziarie e dal 2001 del Patto di stabilità, un rituale che si ripete sempre allo stesso modo: cambiano i protagonisti, ma il “melodramma” è sempre uguale, però sistematicamente peggiorativo.
Sembra una pièce sempre uguale, ma che negli anni ha perso progressivamente smalto per diventare una noiosa replica di un teatrino sempre uguale a sé stesso. Questa stessa manovra sembra un gioco di luci, di ombre, di specchi ingannevoli, dove le affermazioni sono sistematicamente contraddette dai fatti e dai numeri. Si comincia così un estenuante confronto tra il dire e il non dire, tra l’apparire e il non apparire, dove l’unica stabilità è l’assoluta instabilità e l’unica certezza è l’incertezza di norme e di numeri che sembrano scritti su un arenile continuamente battuto dalle onde, con l’unico risultato di accentuare i conflitti, esasperare le persone e rinviare i problemi, attuando un mortale rituale che si ripete da decenni.
Gli spettatori, sempre più annoiati e preoccupati, cominciano a domandarsi: ma quando si decidono a cambiare tutto? Non si rendono conto del peggioramento progressivo? Evidentemente no, e i risultati sono lì implacabili a denunciare che la rotta del transatlantico rischia di scontrarsi pericolosamente con l’iceberg della Storia, che puntuale presenta sempre il conto.
Vediamo i fatti. Nel 2001 il debito pubblico era 1.350 miliardi di euro e ora è prossimo ai 2.500 miliardi, nonostante in questo periodo si sia potuto godere di bassi interessi sul debito; se si dovesse calcolare un interesse figurativo desunto dalla media degli ultimi 20 anni, il nostro debito risulterebbe più che raddoppiato, nonostante il Patto di stabilità e i controlli della Ue sui bilanci. Nonostante il “rigore” dei controlli il debito è esploso per la parte corrente, non per gli investimenti, ma funzionale a mantenere il consenso e a far vivere nell’illusione che una giornata limpida di sole e alcionica potesse non avere mai fine. Abbiamo distribuito ricchezza senza averla prodotta e questo ha creato aspettative, modelli di vita e di consumo che non possono più essere sostenibili.
Il Patto di stabilità, fissato all’indomani dell’entrata nell’euro, di fatto è dunque un ossimoro, perché, evidentemente è tutto fuorché stabile. Il Patto concepito da una cultura centrale antistorica e ossificata è asimmetrico rispetto al Paese, in quanto il modello centrale di controllo si contrappone alla diversità storica dei territori. Il controllo posto sui tetti di spesa e non sui risultati, come dovrebbe essere, ha peggiorato anno dopo anno la gestione con una palese irrazionalità e incapacità di capire le aree di responsabilità.
Ne è nato “il tutti contro tutti”, le amministrazioni centrali contro le periferiche, le istituzioni pubbliche contro quelle private, tutti a difendere i propri interessi facilitati da un impianto concettuale del patto disarticolato dalla realtà e quindi gli scontri sulle virgole di dettati normativi pensati su mondi astrali, ma questo faceva il “gioco”; tutti a perdersi a guardare la foglia e non a capire più la foresta.
Da 40 anni questo Paese non produce più cultura vera e un pensiero che consenta un serio esame di coscienza, ma vive solo della cultura della rendita che brucia, appunto, come detto, ricchezza, ma non la crea e anche sul merito dell’appartenenza basato tutto sul “do ut des”. Nel frattempo siamo entrati nella trappola mortale della finanza, che è arrivata ad un accentramento senza pari nella storia, ma in una dimensione sovranazionale in grado di influenzare le decisioni dei singoli governi con indicatori come lo spread destituiti di razionalità economica, perché i mercati non sono affatto razionali, anche se fa comodo considerarli tali.
Tutto l’impianto concettuale degli attuali metodi di studio dell’economia e della finanza si fonda su ipotesi infondate e smentite drammaticamente dai fatti, ma è funzionale al croupier che gestisce la roulette. La cicala della politica e l’incompetenza di troppi tecnici hanno consegnato un debito sempre più alto ad altri che ora tengono in ostaggio il Paese. La crisi che stiamo attraversando non è economica, ma morale e culturale e rappresenta la fine di un modello culturale che ci obbliga a ripensare al modo di stare assieme e a un confronto meno erratico su numeri che sembrano un gioco delle tre tavolette in una perenne contraddizione tra dichiarazioni e fatti.
La prova è il dibattito sulle modalità di trattamento della fiscalità, in cui queste contraddizioni sono evidenti: aumenta la tassazione o non aumenta? Il sistema diventa più chiaro o meno controllabile? Il deficit aumenta o no? E il debito? Sembra impossibile capire se ci sia un disegno chiaro o se tutto sia frutto del caso o della necessità di chiudere qualche partita numerica; ma quanta più alta sarà l’incertezza, tanto più i controlli saranno difficili e non chiari, prestandosi a contenziosi infiniti in cui tutti finiscono per perderci. Questo è il contesto in cui ci stiamo muovendo, un labirinto in cui non si riesce più a trovare la via d’uscita. Ma l’abbiamo costruito noi.
Occorre prendere atto dei problemi veri e che si provi a definire chiaramente un quadro in cui siano pochi e chiari i disposti di legge, le responsabilità, le aree da controllare, le responsabilità di chi controlla e quelle di chi sbaglia, altrimenti sembra sempre di essere a un remake de La grande bellezza, in cui tutto si opacizza, perde empatia e i valori umani sono sepolti dall’indifferenza generale.
A quel punto dovremmo risentire il monologo finale del protagonista del film, Jep Gambardella: “…tutta la vita nascosta sotto il bla, bla, bla, bla e tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura e gli sporadici sprazzi di bellezza; poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile tutto seppellito dall’imbarazzo dello stare al mondo, bla, bla, bla, bla. Dunque che questo romanzo (contabile e morale) abbia inizio, in fondo è solo un trucco, sì, è solo un trucco”.
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