La rinuncia alla libertà

Si parla tanto di libertà, ma per la maggior parte delle persone esercitarla comporta una fatica. Si preferisce, quindi, un'autorità che dica cosa fare

I gol hanno fatto dimenticare, almeno un po’, l’intervento di Gianni Infantino con cui si sono aperti i Mondiali di calcio. È stato un lungo discorso con il quale ha voluto mettere a tacere le numerose critiche per aver scelto il Qatar per il grande evento calcistico internazionale. Critiche per l’assoluto disprezzo per i diritti dei migranti, per la mancanza di libertà delle donne, degli omosessuali e un lungo eccetera. Meno rilevanti le critiche per la mancanza di libertà religiosa, come se questo diritto fosse meno importante. 

Il presidente della Fifa ha usato un facile espediente: il senso di colpa, quanto l’Occidente deve farsi perdonare per secoli di imperialismo, la sua ipocrisia nel chiedere un buon trattamento dei lavoratori stranieri quando migliaia di persone muoiono nel Mediterraneo. Molto in linea con la “cancel culture”. Il discorso di Infantino ha una risposta facile: i presunti o reali abusi degli occidentali, la loro incoerenza, non possono servire a relativizzare la mancanza di libertà. Un discorso anticolonialista che rivede il passato rifiutando la modernità è ora molto di moda. Senza le esportazioni di petrolio e gas del Qatar, il Paese sarebbe rimasto poco più che un gruppo di tribù colpite dalla povertà.

Non diamo troppa importanza a Infantino, che non ce l’ha. Le libertà, la libertà (dicono gli ucraini) riconosciuta, tutelata, protetta da uno Stato democratico è essenziale. Un’altra cosa è la fatica, la stanchezza che in questo momento di crisi produce l’esercitarla. Il sogno della liberazione è alle nostre spalle. C’è stata la liberazione sessuale, la liberazione economica, la liberazione religiosa… E la storia non è finita. Dopo il giorno della liberazione, in cui si vive una “esperienza di picco”, scopriamo la mattina seguente e quella successiva che dobbiamo ricominciare. I miracoli accadono, ma il miracolo che avevamo ingenuamente sognato, il miracolo di un sistema perfetto, non arriva. E allora appare la vera natura della libertà, che è laboriosa, richiede inventiva, pazienza, sobrietà, tenacia. Proprio tutto ciò che non abbiamo quando ci sentiamo disorientati e indifesi, in un mondo che non comprendiamo bene in cui ci sembra che nulla sia al suo posto.

Il risultato è quello che James Baldwin, sempre brillante, ha sottolineato decenni fa: diventa difficile trovare un uomo veramente libero. “Ho incontrato pochissime persone – e la maggior parte non è americana – che sentono un desiderio reale di essere liberi. La libertà è difficile da sopportare”.

Questa rinuncia alla libertà, causata in gran parte dalla fatica e dallo smarrimento, ha origine in un dubbio sulla capacità di discernimento, sulla capacità di saper distinguere. La ragione ha smesso di essere considerata, dalla sinistra e dalla destra, come una forza capace di emancipazione. È il risultato del razionalismo. La verità condivisa è stata da tempo diluita e ci sembra che non temiamo più la capacità di identificare ciò che rende la vita degna di essere vissuta, ciò che è bello. Come sottolinea Wendy Brown, “questo porta a risultati diversi: si sviluppa una forma di religione che non si preoccupa di dimostrare se stessa … si stabilisce una forma di dettare come le persone dovrebbero vivere a livello morale e politico … era qualcosa che la maggior parte dei teorici del nichilismo comprendeva sarebbe stato quasi inevitabile man mano che prendeva piede la perdita di sicurezza nei valori”. Nei valori illuminati, negli ideali condivisi.

La reazione è il risentimento, la dialettica della negazione, la ricerca di una persona, di un’istituzione, che ci risparmi ogni indagine esistenziale. L’autorità non è più un’istanza che promuove l’avventura di scoprire noi stessi e il mondo, con i rischi che questo comporta, ma qualcuno o qualcosa che ci dice cosa fare. Cosa ci farà recuperare il gusto di essere liberi? I suggerimenti sono ben accetti.

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