Nei momenti di crisi (come quello che stiamo vivendo) spesso le aziende si vedono costrette, loro malgrado, a procedere a licenziamenti per ragioni “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (per usare le parole dell’art. 3 della L. n. 604 del 1966, che detta le “norme sui licenziamenti individuali”). Si tratta dei cosiddetti licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.), ovvero dei licenziamenti per “motivi economici” (parzialmente diverso è il caso dei dirigenti, dei quali qui non parliamo).
Qualora il lavoratore contesti la fondatezza del licenziamento e non riesca a raggiungere un accordo conciliativo con l’azienda, quest’ultima dovrà difendere la legittimità del proprio recesso dal rapporto di lavoro davanti al Giudice (rischio che peraltro va progressivamente e significativamente riducendosi: dal 2012 – anno in cui è entrata in vigore la famosa riforma Fornero, che ha modificato il notissimo art. 18 dello Statuto dei lavoratori – al 2021, le cause di impugnazione di licenziamento per g.m.o si sono ridotte di quasi il 67%). E se l’azienda non riesce a provare la legittimità del licenziamento e si tratta di un dipendente assunto prima del marzo 2015 presso un’azienda con più di 15 dipendenti, la conseguenza è la reintegrazione nel posto di lavoro.
Ma in giudizio cosa deve provare il datore di lavoro per dimostrare la correttezza del licenziamento? Anzitutto, le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3 della legge n. 604 del 1966, cit.), quindi il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, e infine l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in altre mansioni. Come ha precisato la Corte di Cassazione, “l’onere di non potere ragionevolmente utilizzare il dipendente interessato dal recesso in altre mansioni diverse da quelle che svolgeva [il c.d. obbligo di “repechage”] costituisce una creazione giurisprudenziale (tratta dalla esegesi della L. n. 604 del 1966, art. 3)” (Cass. 3.12.2019 n. 31520), e scaturisce dal fatto che il licenziamento “si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore” (Corte Cost. n. 125 del 19.5.2022). E qui casca l’asino.
Poiché l’obbligo di repechage non è definito e disciplinato dalla legge, ma è frutto di una creazione (condivisibile) della giurisprudenza, il contenuto e i contorni di quell’obbligo vanno mutando nel tempo, essendo legati alle riflessioni – che scaturiscono dal mutevole contesto socioeconomico -, ai progressivi affinamenti (ma anche ai ripensamenti) delle sentenze che nel tempo si succedono e alle peculiarità di ciascun singolo caso concreto che viene sottoposto al Giudice.
Di sicuro, si può dire che il datore di lavoro deve in primo luogo dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni analoghe a quelle precedentemente svolte (v. ad esempio Cass. 8.2.2011, n. 3040, Cass. 1.7.2011, n. 14517). Ma questo non basta. Il datore di lavoro deve anche dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni proprie del livello di inquadramento immediatamente inferiore a quello del dipendente da licenziare e rientranti nella stessa categoria (ad esempio: se si vuole licenziare un impiegato di categoria, non ci devono essere posti liberi da impiegato di seconda categoria; se si intende recedere dal rapporto di lavoro con un operaio di terzo livello, non ci devono essere posti vacanti da operaio di secondo livello, ecc.). E ciò in quanto l’art. 2103 del Codice Civile stabilisce che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale“.
Ma neppure questo basta ancora: l’art. 2103 citato stabilisce anche la possibilità di assegnare mansioni ulteriormente inferiori ovvero proprie di una categoria legale diversa (ad esempio, passare dalla categoria dei quadri a quella degli impiegati) se il lavoratore è d’accordo. Ne consegue che il datore di lavoro, prima di recedere dal rapporto di lavoro, se ha un posto vacante con mansioni e qualifica inferiore a quello di appartenenza del dipendente da licenziare, gli deve proporre la ricollocazione in quella nuova posizione e solo dopo aver “incassato” il rifiuto potrà procedere con il recesso (osservando peraltro formalità diverse a seconda della data di assunzione e della dimensione aziendale, ma questo è un altro discorso).
Ora, secondo l’impostazione giurisprudenziale tradizionale (v. da ultimo Cass. 23.2.2022 n. 5981), tutte queste verifiche devono essere effettuate tenendo conto che “non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un’ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro (cfr. Cass. 03/12/2019 n. 31520)“. E ciò perché, diversamente, “l’obbligo di attribuire al lavoratore mansioni che necessitino [anche] di adeguata formazione significherebbe infatti imporre al datore di lavoro un ulteriore costo economico” (Trib. Roma 24 luglio 2017).
Senonché questa impostazione tradizionale è stata recentemente contraddetta da una sentenza del Tribunale di Lecco del 24/10/2022, secondo cui il datore di lavoro, prima di risolvere il rapporto di lavoro dovrebbe valutare “non solo l’impossibilità del repechage, ma anche l’impossibilità (o quantomeno l’antieconomicità) della riqualificazione professionale del dipendente (ad esempio attraverso corsi professionali o l’affiancamento ad altri colleghi)“. La nuova conclusione a cui è pervenuto il Tribunale di Lecco getta una luce inquietante sull’obbligo di repechage, rendendolo eccessivamente gravoso, per non dire diabolico: perché per quasi ogni posizione si possono approntare corsi di qualificazione professionale (in particolare per la categoria operaia). Così il licenziamento diventa particolarmente difficoltoso e rischioso, senza contare che la valutazione del Giudice potrebbe in tal modo spingersi oltre, giungendo a sindacare scelte organizzative e produttive del datore di lavoro (con ciò violando l’art. 41 Cost che garantisce la libertà d’impresa). Quanto poi alla antieconomicità, si tratta di un concetto evanescente e anche di difficile applicazione: perché la presenza di un lavoratore con una determinata qualificazione professionale in azienda – in ipotesi quella da somministrare al lavoratore in esubero – implica un vantaggio economico per l’azienda stessa (che diversamente si rivolgerebbe al proprio esterno). C’è da confidare che una “rondine” non faccia primavera.
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