C’è tutto in quell’immagine desolante di solitudine estrema: carta e vento che volan via in una stazione dove fa freddo e luci al neon fioche e consumate accese solo per loro due, i protagonisti. Angoscia metropolitana. L’incapacità di comunicare i sentimenti più profondi. Lei, che come in un libro scritto male, gli dice del marito che “si è ucciso per Natale”. Lui che riesce a dire i dieci anni in cui non si sono più visti “in un solo saluto”. Poi, seduto sul treno, un vagone di terza classe probabilmente, “le luci nel buio di case intraviste”, dietro alle quali si celano altrettante storie di solitudine e tristezza. E alla fine quella frase che schianta, che devasta, ma che dice tutto, proprio tutto quello che c’è nel cuore di ognuno: “siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno…”. Simboli che occupano lo spazio del desiderio di felicità, di bellezza, di amicizia, di un abbraccio. Come dovrebbe essere in un “incontro”.
Eppure il disco che contiene questa canzone memorabile di Francesco Guccini, forse la più cruda e allo stesso tempo più bella del cantautorato italiano degli anni 70 (ma, diciamolo, di sempre) era cominciato in ben altro modo. Era cominciato con il brano che dà il titolo al disco, Radici. Una sontuosa ballata pianistica in crescendo, che toglie il fiato. La voce piena di umori, tra la nostalgia immane e la dolcezza. Il ricordo. “La casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l’anima che hai, se vuoi capire l’anima che hai”.
In un’epoca storica, il decennio della rivoluzione permanente, in cui lo slogan era distruggere tutto ciò che era il passato, dalla famiglia alla scuola all’università ai genitori Francesco Guccini torna alle sue radici. Lo fa perché è impossibile per un uomo vero, onesto con se stesso, reciderle. Perché siamo fatti di coloro che ci hanno preceduti, di segni: “E te li senti dentro quei legami, i riti antichi e i miti del passato e te li senti dentro come mani, ma non comprendi più il significato, ma non comprendi più il significato”.
La società moderna ha reciso quei legami, ha riempito il cuore di simboli, non più di persone, e allora ti sfugge il senso anche se ne percepisci la presenza: “Ma che senso esiste in ciò che è nato dentro ai muri tuoi, tutto è morto e nessuno ha mai saputo o solamente non ha senso chiedersi, io più mi chiedo e meno ho conosciuto”. Il mondo ci ha fatto male molto male. “La casa è come un punto di memoria, le tue radici danno la saggezza e proprio questa è forse la risposta e provi un grande senso di dolcezza” e tanto basta.
Radici, uscito nell’ottobre di 50 anni fa, è il primo disco, dopo averne pubblicati ben tre a cominciare dal 1967, che porta in copertina nome cognome dell’autore, una dichiarazione di intenti. E la foto dei bisnonni e i loro quattro figli, le sue radici. Dietro, il cantautore e la sua compagna: niente figli, solo un gatto fra le braccia, la nuova famiglia che non ha radici da lasciare ai posteri.
Il capolavoro di Guccini contiene le sue canzoni più belle. Dalla Locomotiva, dieci minuti incessanti di narrazione come un antico cantastorie d’altri tempi ma con uno sferragliante tempo rock, canzone divenuta in quegli anni manifesto di una generazione, che ai concerti al verso “Fratello, non temere, che corro al mio dovere! Trionfi la giustizia proletaria!” si alzava tutta in piedi con il pugno chiuso alzato, ai mesti ricordi di una infanzia grigia e stordente come quella di tutti spesi in una Piccola città, “bastardo posto” da cui fuggire appena possibile, (“primi giorni della scuola, la parola ha il mesto odore di religione; vecchie suore nere che con fede in quelle sere avete dato a noi il senso di peccato e di espiazione”). E ancora: la medievaleggiante Canzone dei dodici mesi, ispirata ai sonetti malefici di Folgòre da San Gimignano.
Il senso immane del divino, del mistero, che schianta la bambina portoghese quando scende al mare e si trova “l’Atlantico immenso di fronte” che gli suggerisce il senso di “qualcosa di grande che non riusciva a capire, che non poteva intuire, che avrebbe spiegato, se avesse capito lei, quell’oceano infinito”. Cioè Dio.
Il vecchio e il bambino chiude il cerchio dell’incontro tra le generazioni, una canzone ecologista prima del tempo, il vecchio racconta di quando quei luoghi erano coperti di grano, di fiori e di alberi, assecondando il ritmo delle stagioni. “Il bimbo ristette, lo sguardo era triste/ e gli occhi guardavano cose mai viste/ e poi disse al vecchio, con voce sognante/ mi piaccion le fiabe, raccontane altre.”
Per questo anniversario lo storico disco esce il 2 dicembre in un esclusivo cofanetto in edizione limitata e numerata, contenente un LP 180 gr trasparente, un cd e il poster con la memorabile immagine di copertina.
La speranza è che si sia potuto rimettere mano alle incisioni originali e migliorarle perché, purtroppo, per quanto fossero belle le canzoni, il disco venne registrato malissimo, con un suono confuso e ottuso, in cui gli strumenti sembra siano suonati in un’altra stanza al chiuso. Purtroppo non si potrà mettere mano agli arrangiamenti, che abusano della moda del momento, certa improvvisazione progressive pesante e datata, che a Guccini con il suo stile non si adattava per niente. Avrebbe trovato un giusto equilibrio sonoro solo nel 1976, con l’altro disco capolavoro, Via Paolo Fabbri 43, ma quella è un’altra storia. Va bene così. Le canzoni di questo disco superano ogni limite nella loro immensa bellezza.
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