Ci vorrà ancora un pochino. Ma la verità sta venendo a galla. In compenso, stiamo per ripetere il medesimo errore su un fronte paradossalmente ancora più sensibile. Partiamo con ordine: lentamente e senza eccedere nei particolari, tanto da arrivare all’iconoclastia ex post rispetto all’apologia del Governo dei Migliori, stanno emergendo i veri numeri del Pnrr. E, soprattutto, la sua natura. Quel piano, attorno a cui ha ruotato la politica del nostro Paese degli ultimi diciotto mesi, di fatto, è niente più che una versione ampliata, quasi la nave scuola, del price cap sul gas e sul petrolio russo. Uno specchietto per le allodole irrealizzabile. Ma in grado, fattivamente e non solo simbolicamente, di vincolare le scelte future. Esattamente come la discussione su Gazprom si è impantanata su un livello di prezzo tale al MWh da rendere totalmente inapplicabile la norma e quella sul greggio degli Urali ha visto lo scontro fra oltranzisti russofobi e Paesi interessati al trasporto via mare generare l’ennesima impasse, ecco che quel generatore di sorti magnifiche e progressive sta scontrandosi contro la realtà di tempi e costi. Semplicemente, anch’essi inapplicabili. Quantomeno in un Paese come l’Italia.
E infatti, giorno dopo giorno, emergono cifre allarmanti. I progetti in ritardo si moltiplicano, mentre i fondi continuano a calare. E il problema sta alla base: ci hanno venduto una realtà che semplicemente non esiste. Perché l’Italia non è in grado di portare a termine quella messe di progetti entro il 2026, scontandone ritardi e burocrazie croniche che nemmeno la presunta bacchetta magica di Mario Draghi ha saputo eliminare. C’è poi un’aggravante, questa sì totalmente ascrivibile – ma in negativo – all’Esecutivo precedente: aver caricato l’intero peso della ripresa su un progetto devasta-conti come il superbonus. Il quale, oggi, vede infatti sommarsi una serie di criticità che vanno ben oltre la mera cantieristica: il rischio è quello da un lato di insolvenze di aziende, dall’altro un’esplosione di mismatch bancari legati ai crediti. Non a caso, si torna a parlare di prolungamento tout court della misura. Nonostante il giudizio sferzante e senza appello al riguardo sia di Giorgia Meloni che di Giancarlo Giorgetti, non più tardi di due settimane fa.
Ci siamo incartati. E il rischio è duplice. Da un lato, la sbornia da Recovery Plan ha talmente contagiato l’intera classe politica di questo Paese da aver tramutato i miliardi del Pnrr in una sorta di El Dorado dei conti pubblici, un Klondike le cui miniere apparivano illimitate. E quei soldi europei, prima spacciati come gratuiti e poi ridimensionati nella loro natura di prestito, sono finiti nei bilanci dello Stato, nei Def, nelle previsioni. E se così non fosse? E se, come la cronaca pare impietosamente mostrarci ogni giorno, dovessimo rivedere drasticamente al ribasso sia le stime, sia i progetti? Apparentemente, è già così. I ritardi sono spesso incolmabili, già oggi. Quindi, le risorse perse. O, magari, mai esistite. Perché ripeto, il sospetto è quello di una missione impossibile creata a tavolino. Un gioco di specchi, un contentino pandemico che, alla fine, temo si mostrerà in tutta la sua insipienza, quantomeno rispetto al quadro originario: il Pnrr porterà alle casse dello Stato poco più, se non poco meno, di quanto avremmo introitato attivando subito il Mes sanitario.
Il problema? Tutto e solo politico. Il Pnrr può infatti essere spacciato come il risultato del secolo, il Mes comunque e sempre come una sconfitta. Di più, la lettera scarlatta. Appunto, tutto e solo politica. Perché alla fine, ciò che conta è ciò che entra a bilancio. E i progetti a cui si taglia il nastro. Tutto il resto è propaganda. Pericolosa. Esattamente come il sesto invio di armi all’Ucraina appena varato dal Consiglio dei ministri, talmente ritenuto esiziale dal ministro della Difesa da aver generato un effetto scenico ad hoc rispetto al mezzo legislativo posto in essere per il suo sblocco. Peccato che, come al solito, l’Italia operi in modalità Pippo Inzaghi. Non avendone però il tempismo. E quindi, appare destinata a una lunga permanenza in stato di fuorigioco. Perché mettersi a parlare di invio di missili Aspide, mentre Emmanuel Macron viene incoronato da Joe Biden come unico referente credibile dell’Europa che cerca la pace, equivale a non guardare né la palla, né il guardalinee. Tipico del ministro della Difesa, in effetti. I cui orizzonti di dicastero paiono altri.
Perché signori, il Presidente francese non solo è andato a Washington a dire in faccia all’uomo più potente del mondo che l’Ue non può essere vittima sacrificale della guerra fra Usa e Cina e che i sussidi all’economia statunitense sono un danno per il Vecchio continente. Gli ha strappato addirittura l’apertura di un processo di pace in Ucraina. E non basato sulle parole o sul wishful thinking: c’è già una data, il 13 dicembre. Ovvero, praticamente domani. Sperando che, stante il padrone di casa e la collocazione geografica, non si intenda imporre alla Russia una pace di Versailles 2.0, visti i precedenti storici in cui si sono tramutate certe umiliazioni diplomatiche. Comunque sia, il nostro peggior nemico è appena diventato il referente globale a nome dell’Europa. Tempismo perfetto da parte del Governo, giocarsi l’avvenire – anche legato al Patto di stabilità, oltre che allo stesso Pnrr e alla sua possibile sospensione o riduzione dei fondi – per 300 migranti e una battaglia di retroguardia del ministro Salvini sulle Ong. Un capolavoro.
Certo, in questo Paese è bastato che Giorgia Meloni parlasse con Joe Biden a Bali per cinque minuti più del preventivato per tramutarla immediatamente in Golda Meir, ma la realtà è altra. Il nostro Paese rischia di ritrovarsi, a strettissimo giro di posta, nel ruolo di commesso viaggiatore dell’industria bellica, mentre a Parigi si parla di pace ai massimi livelli, fra Joe Biden e Vladimir Putin e con la tacita benedizione di Xi Jinping. Se poi Emmanuel Macron riuscirà anche a ottenere la pace fra Russia e Vaticano, pur essendo erede delle ghigliottine in piazza, sarà pronto per i libri di storia. Noi, invece, saremo pronti per l’invio di missili Aspide. E nel frattempo, proseguiremo il nostro triste e pericoloso scale back dei fondi del Pnrr dal bilancio dello Stato. Pensate che sia un caso che Giorgia Meloni, dopo averlo definito un colossale buco nei conti pubblici, in queste ore stia rivalutando il supebonus e riflettendo su un suo prolungamento, quantomeno su due punti emendativi? Giancarlo Giorgetti i numeri sa leggerli. E metterli in fila, incasellarli. E qualcosa comincia ad andare fuori controllo. Sempre più rapidamente.
Capito che bella patata bollente Mario Draghi ha passato nelle mani di Giorgia Meloni, insieme alla campanella? E capito perché Carlo Calenda sembra un bimbo la mattina di Natale?
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