Per anni, la mitologia western ci ha raccontato i nativi americani – i cosiddetti indiani o pellirossa – come tribù selvatiche con la propensione a uccidere i bianchi, gli americani importati; dopo la revisione storica degli anni ’60, la favola non è più stata raccontata allo stesso modo, ma gli eredi di quegli indiani sono perlopiù nascosti dalla vista e dal racconto, relegati nelle riserve, oggi come allora. Tra i pochi film o racconti dedicati a questa realtà c’è War Pony, esordio alla regia dell’attrice Riley Keough (coadiuvata dalla produttrice Gina Gammell) premiato a Cannes come migliore opera prima e in concorso al Torino Film Festival 2022.
Il film racconta le vite di un gruppo di ragazzi della riserva Oglala Lakota di Pine Ridge, in South Dakota, in condizioni di povertà e degrado, tra ragazzi che non riescono ad avere un lavoro stabile e di conseguenza non possono mantenere i figli e bambini privi di educazione e punti di riferimento che possono solo contare sulle loro forze, in attesa di svolte o colpi di fortuna. Le due registe scrivono assieme a Franklin Sioux Bob e Bill Reddy un dramma ambientato tra veri discendenti dei nativi, nella vera riserva che fa da sfondo, mettendo in scena storie vere accadute ai protagonisti o ai loro cari.
L’impianto quindi è quello di un secco realismo, che per stile, temi, modi di racconto passa in rassegna tutto il naturalismo cinematografico da De Sica ai Dardenne passando per un certo tocco antropologico e il vitalismo (solo sfiorato) di Sean Baker (The Florida Project) e Andrea Arnold, senza tralasciare echi lontani di quell’epopea western con cui non si possono non fare i conti. Keough e Gammell non vogliono un punto di vista preciso per affrontare il racconto, anzi cercano uno sguardo più corale possibile, che possa anche dare conto delle varie sfumature sociali all’interno della riserva; l’andamento di War Pony però è pigro, vicino ai propri personaggi ma ai quali non sa dare un impronta specifica che non sia quella di qualunque racconto di periferie degradate, con percorsi narrativi convenzionali, come nel rapporto con la coppia bianca.
Quel che lascia ancora più perplessi è il determinismo sociale – e quindi narrativo e visivo – che sottende al film, per cui ogni comportamento dei personaggi è previsto, fa parte di un meccanismo da cui nessuno ha voglia e capacità di sottrarsi, come se i più deboli e poveri fossero sempre schiacciati e mai arrabbiati contro il mondo che li schiaccia. È una visione pericolosamente paternalistica del mondo e del cinema, che ingabbia tutto e tutti in schemi ineluttabili, tanto che quando il finale prova a scartare dai binari non sembra farlo per convinzione quanto per dare un contentino allo spettatore, che in effetti gradisce.
La rappresentazione sullo schermo sarà probabilmente fedele a ciò che vivono i Lakota, ma al cinema forse, anche e soprattutto quello realistico, sarebbe lecito chiedere uno scarto diverso, un gesto di liberazione davvero rispettoso.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.