L’ultimo dato sul mercato del lavoro americano, comunicato ieri dal dipartimento del lavoro, non ha evidenziato alcun rallentamento; il tasso di disoccupazione a novembre è rimasto fermo al 3,7%, sono stati aggiunti 263mila posti di lavoro e, soprattutto, si è registrato un incremento orario dei salari del 5,1% rispetto a dodici mesi fa. La politica di rialzo dei tassi della Federal Reserve e l’inflazione ai massimi degli ultimi 40 anni non hanno ancora raffreddato il mercato del lavoro. I lavoratori lasciati a casa nei settori della tecnologia e in quelli legati all’immobiliare e alla finanza sono rientrati nel mercato in altri settori. Due giorni fa Jerome Powell aveva spiegato che era necessario un raffreddamento del mercato del lavoro per convincere la Fed di un’imminente discesa dell’inflazione e aveva fatto intendere che la crescita dei salari sarebbe dovuta essere coerente con l’obiettivo di un’inflazione al 2%.
Il report di ieri invece fotografa un mercato del lavoro ancora solido e una crescita dei salari sensibilmente superiore al 2%. Questo significa che tra due settimane la Federal Reserve alzerà i tassi di altri 50 punti base e che i tassi nella prima parte del 2023 supereranno il 5% prima di fermarsi e magari scendere. La Federal Reserve anche volendo non ha appigli per cambiare senso di marcia. A differenza della sua controparte europea non deve gestire gli spread, ha una crisi energetica che è una frazione di quella europea e osserva un incremento dei salari più alto di quello europeo a fronte di un’inflazione più bassa.
L’uscita del dato ha fatto salire lo spread e il rendimento delle obbligazioni statali europee e ha determinato un rafforzamento del dollaro contro l’euro. La prima questione, sia da questa che dall’altra parte dell’Atlantico, è quando arriverà la recessione negli Stati Uniti e quanto sarà severa e poi quanto velocemente la Federal Reserve cambierà politica monetaria. Più passa il tempo e più la Fed alza i tassi, più aumentano le probabilità di un rallentamento o di un fallimento che inneschi una spirale negativa dai settori più finanziari e poi nell’economia reale. Gli indiziati sono sempre gli stessi: l’immobiliare, le società finanziarie e quelle con i più alti livelli di leva.
La seconda questione invece riguarda l’Europa. Il disallineamento tra economia americana ed europea causato dalle sanzioni alla Russia e dalla crisi energetica rischia di produrre uno scenario in cui la politica monetaria americana manda in crisi l’Unione europea senza che ci sia una corrispondente crisi negli Stati Uniti. In questo scenario la Banca centrale europea si troverebbe stretta tra la necessità di salvare la valuta comune e preservare l’economia continentale e quella di contenere l’inflazione. Non è chiaro se e quanto velocemente si arriverà a questo scenario. Le scorse crisi hanno avuta una genesi lenta in cui per diversi trimestri sembrava che tutto sommato l’impalcatura reggesse; a un certo punto arriva una rottura che determina un’accelerazione nuova. È il caso per esempio della crisi Lehman scoppiata ufficialmente nell’autunno del 2008 e iniziata, almeno, 18 mesi prima nella primavera del 2007.
Se l’Europa riuscisse a risolvere rapidamente la crisi energetica l’allarme potrebbe rientrare. Diversamente le probabilità di trovarsi in una fase di accumulo della crisi sono destinate a salire.
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