La giostra ha cominciato a girare. Spunta l’aumento dell’esenzione all’obbligo di POS fino a spese da 60 euro, poi la presidente del Consiglio torna indietro. Può anche scendere, fa sapere, prima di metterci al corrente della fondamentale rivoluzione nel rapporto con i cittadini: l’appuntamento con gli Appunti di Giorgia. In ansiosa attesa del lancio de In cucina con Giorgia, giova sottolineare due questioni. Queste sì, esiziali. Primo, quel può anche scendere non è farina del sacco dell’inquilina di palazzo Chigi, ma dei rilievi della Commissione europea sui contenuti della manovra. La quale non pare particolarmente convincente nemmeno rispetto ad altri due capitoli, giustizia e scuola. Seconda questione, le tensioni in seno all’Esecutivo stanno montando molto più rapidamente del previsto. Sarà perché gli alleati fremono, fra un Salvini alle prese con i congressi nella Lega e una Forza Italia in cerca d’autore. Ma la fase del parricidio definitivo, il distacco traumatico dall’interregno di transizione morbida, quasi impercettibile in forme e contenuti, dall’Esecutivo Draghi è in fase di elaborazione molto avanzata. Ci trovassimo nello studio di uno psicoterapeuta, potremmo dire che il percorso di risoluzione della paziente è ormai concluso. Siamo alle ultime sedute, insomma. Poi, via le rotelle dalla bicicletta e pronti a pedalare da soli.
E infatti, puntuale come morte e tasse, la fronda dei duri e puri chiederebbe discontinuità e fine della linea soft. E casualmente, in contemporanea con l’emergere della vera natura fallimentare e illusoria del Pnrr di cui vi ho parlato nel mio ultimo articolo, ecco saltar fuori i primi (e nemmeno troppo velati) rimbrotti al Governo dei Migliori per lo stato dell’arte lasciato in eredità. Su 55 progetti da completare, ne hanno lasciati 30 in capo a noi, emerge dalle stanze del potere. Quasi a far intendere che Mario Draghi fosse conscio fin dall’inizio della natura truffaldina del Pnrr e abbia quindi lasciato ben volentieri palazzo Chigi, prima che questa emergesse in tutta la sua drammatica realtà di conti sballati, ritardi incolmabili e scadenze che possono significare addio ai sogni di gloria. E, soprattutto, i mitologici fondi europei. Parliamoci chiaro: il Paese è rimasto fermo da metà luglio a fine ottobre, causa elezioni. Chiaramente, oggi si sconta quella totale inattività delle Camere. Altresì, come scrivevo sabato, è innegabile che Mario Draghi fosse perfettamente conscio della patata bollente che stava lasciando come legacy operativa. E state certe che ne era assolutamente a conoscenza anche il più draghiano fra i ministri, non a caso nominato uomo dei conti e dei numeri: Giancarlo Giorgetti.
E ora, cosa si fa? Disastri. Perché purtroppo, insieme alla vulgata colpevolista verso l’esecutivo Draghi, sta prendendo forza anche il partito dell’ideologia più scontata e deteriore. La pantomima sul Mes, infatti, è pericolosa. Non tanto e non solo perché stuzzica la pazienza dell’Europa in un momento particolarmente a rischio rispetto, ad esempio, alle scelte che la Bce compirà la prossima settimana. Bensì perché dissemina di bandierine di parte un campo minato. Con l’ovvio aumento delle possibilità che una delle aste, conficcandosi nel terreno, vada a colpire un ordigno. E boom!
Da qualche giorno leggiamo praticamente su tutti i grandi quotidiani e siti di informazione dell’emergenza influenza, esplosa con anticipo e virulenza fuori dal comune, dopo due anni in cui l’uso generalizzato delle mascherine ci aveva preservato dal virus stagionale e dalla sua diffusione. Particolarmente colpito il Nord e, come sempre, la categoria a maggior tasso di contagio è quella dei bambini, sia per una questione di sistema immunitario che per la prossimità di contatti nelle scuole, nelle palestre e negli ambiti ludici. Fin qui, normale amministrazione di ogni inizio inverno. Il problema è quanto accade nell’ambito sanitario. Ovvero, la crisi ormai cronica della medicina di base e di prossimità spinge frotte di genitori preoccupati, stante la difficoltà nel distinguere il Covid della semplice influenza stagionale, ad accampamenti di ore nei pronto soccorso, nelle aree di attesa e a ridosso di quelle di triage. Risultato? Un caos. Attese infinite con il rischio di andare a inficiare anche l’operatività d’urgenza per patologie più serie, come infarti o trattamenti di vittime di incidenti stradali.
La sanità pubblica è in crisi, in sofferenza dopo due anni di emergenza e turni massacranti. Bene, qual è la risposta del Governo a questa situazione, certamente non destinata a migliore da sola o per grazie di nostro Signore? La pagliacciata sul no alla ratifica parlamentare del Mes, appunto. Pura ideologia. Pericolosa e dannosa. Per una volta, il Signore mi perdoni per questo, mi tocca essere d’accordo con Carlo Calenda e Matteo Renzi. I 37 miliardi del Mes sanitario vanno presi. Subito. E spesi. Subito. E tutti. Perché purtroppo, per quanto oggi ci si curi di più, si mangi meglio e si fumi meno, la gente continua ad ammalarsi. La sanità è uno di quei capitoli di spesa da cui non si può derogare. Come l’educazione e la ricerca. Ma, soprattutto, occorre essere realisti. E rischiare qualche voto e qualche tempesta di malcontento sui social. Il no al Mes avrebbe senso se le condizionalità che quel prestito comporta fossero le uniche verso cui il Paese si troverebbe poi a dover far fronte. Ma quando il tuo debito è già oggi strutturalmente e totalmente dipendente nella sua sostenibilità dalle scelte politiche e operative della Bce, qual è il senso di quel no, se non un’ottusa bandierina di parte?
Se la prossima settimana l’Eurotower optasse per una riduzione di controvalore nel concambio de facto fra Bund e Btp su cui si basa il reinvestimento titoli subentrato al termine del Pepp lo scorso luglio, dove andrebbe a finire il nostro spread in tre giorni al massimo? E questo a parità di condizioni macro del Paese, ovvero senza che nulla di concreto sopraggiunga a mutare il quadro economico. Pensate davvero che quell’aiutino sia gratis? Certo, sulla carta è gratuito rispetto alle condizionalità formali cui sarà vincolato l’eventuale accesso dello scudo anti-spread, il Tpi. Ma, nei fatti, già ci impone un’eterodirezione della nostra politica economica da parte dell’Europa.
Basti vedere – nella sua piccolezza esemplificativa – proprio la questione del cambio di strategia sul tetto all’utilizzo del Pos. Solo un giorno. E da 60 euro ci si è affrettati a rendere noto come, in realtà, si potrebbe scendere. E quella frenata, quel mettere in pausa la rincorsa forsennata verso un ennesimo liberi tutti che suona molto come favore ai furbetti, se unito a deroghe sul superbonus e rotoli di banconote da 5.000 euro nelle tasche, ci dice una cosa sola: la soglia effettiva la deciderà Bruxelles, non Roma. Già oggi. Perché allora dire no a 37 miliardi che aiuterebbero medici e famiglie, stante una situazione di oggettiva difficoltà di un comparto chiave della società? Ideologia e consenso. Nulla di più. Due brutti vizi che pensavo emergessero in seno al Governo dalla prossima primavera. Invece, già fanno brutto sfoggio di loro.
Pessimo segnale. Perché in queste condizioni di tensione, a febbraio il voto in Lombardia e Lazio può anticipare il terremoto. E farlo in maniera disordinata.
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