Le operazioni produttive, specie in un campo che per l’Italia è ancora in fase di esplorazione come i film pensati direttamente per lo streaming, hanno bisogno di tempo, di prove, di aggiustamenti: se La belva, action movie di Ludovico Di Martino, non era riuscito ad attrarre il pubblico di Netflix perché troppo sbilanciato all’imitazione per avere qualcosa di interessante da far vedere, Il mio nome è vendetta risulta essere il miglior esordio italiano di sempre sulla piattaforma e uno dei migliori in assoluto tra quelli non in inglese, con 32,5 milioni di ore di visualizzazione nella prima settimana.
Cosimo Gomez (regista e sceneggiatore), Colorado Film e gli sceneggiatori Sandrone Dazieri e Andrea Nobile hanno evidentemente lavorato con perizia, prendendo modelli chiari e vincenti – Io vi troverò, Mio figlio – dandogli un’impronta più riconoscibile, lavorando meglio su luoghi, contesto e un’atmosfera italiana che non facesse a pugni con l’impianto internazionale.
La storia è quella di Santo (Alessandro Gassmann), un padre di famiglia che si trova a dover proteggere la figlia (Ginevra Franesconi), dopo la morte della moglie, dal passato di ‘ndranghetista che aveva sepolto: tra i boschi del Trentino e Milano, l’uomo inseguirà la vendetta contro la famiglia criminale che gli ha rovinato la vita e insegnerà alla ragazza a difendersi dal futuro.
Quello che in più di un’occasione ha reso vani i tentativi nostrani di approcciarsi al genere in chiave internazionale è la mancanza di credibilità nelle scene d’azione e negli stunt, di attori che non riuscivano a integrarsi in un sistema filmico su cui nessuno li aveva mai tarati, di un’atmosfera che sembrava un gioco parodistico e imitativo più che una riproposizione; grazie invece all’apporto della fotografia di Vittorio Omodei Zorini, del montaggio di Alessio Doglione, delle scenografie di Maurizio Sabatini e di Emiliano Novelli, coordinatore degli stunt e regista delle scene d’azione, Il mio nome è vendetta supera i suoi limiti.
Ovvero, la prevedibilità di certi snodi o la banalità della trama, che però oggettivamente in cose del genere contano meno (per chi scrive, molto meno) del dinamismo della regia, dell’efficacia dell’approccio, dell’attendibilità delle scelte tecniche e della costruzione di un mondo narrativo locale ma esportabile, replicabile (il finale accenna coerentemente alla possibilità di seguiti ed espansioni) e vicino al sentire del pubblico di partenza.
Soprattutto, la sceneggiatura sembra una questione di lana caprina rispetto al lavoro che Gassmann, Francesconi e il resto del cast fanno sui loro ruoli, sulla loro fisicità, sulla violenza dura e sporca che Gomez mette in scena. Lungi dall’essere un film che cambierà il cinema di genere, Il mio nome è vendetta è altresì un’opera che ha giocato le carte giuste per vincere la sua partita e farsi notare (se non apprezzare anche all’estero), superando più di un pregiudizio.
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