Un collega bravo e coraggioso come Alessandro Barbano ha scritto un libro (L’inganno, Marsilio editore) per raccontare le storture, le ingiustizie, le vere e proprie assurdità che accompagnano la gestione di quel particolare ramo della giustizia affidato all’apparato dell’Antimafia che gode, per la specificità del suo campo d’azione, di potenti mezzi d’indagine adoperati troppe volte con disinvoltura.
Il risultato può apprezzarsi nei numerosi (numerosissimi) errori giudiziari di cui si viene difficilmente e distrattamente a conoscenza per l’abitudine di relegarli in striminziti trafiletti di giornale a fronte dell’ampio spazio riservato ai temi dell’accusa quando l’inchiesta prende origine secondo lo schema collaudato del mostro sbattuto in prima pagina senza alcuna possibilità di difesa mediatica.
Cose che già si conoscono, si potrebbe obiettare, dal momento che gli incidenti di percorso si sono fatti così fitti e palesi da far crescere nel Paese la consapevolezza che qualcosa nel corpo del gruppo scelto di magistrati messi a fronteggiare la criminalità organizzata proprio non va. Non è possibile naturalmente generalizzare, ma nessuno può negare che il rapporto di fiducia con gran parte degli italiani si sia rotto.
Qualcuno, anche di valore e buona reputazione, ha contestato a Barbano che così facendo – prendendo cioè di petto la situazione e puntando il dito contro l’istituzione e i suoi comportamenti deviati – possa commettere lo stesso sbaglio che denuncia: farsi prendere dalla foga di chi interpreta una parte e diventare ingeneroso verso un intero settore senza salvare gli aspetti positivi che rappresenta. Ma l’autore è un giornalista, non un esperto del diritto. E il suo è un volume – non un saggio scientifico – che mette insieme una serie di storie emblematiche e provate come spie di un grande problema che non si può ignorare e la cui soluzione non può essere a lungo rimandata. Se accadono, e accadono, le cose narrate con dovizia di particolari vuol dire che occorre aprire entrambi gli occhi e provvedere.
Troppe vite spezzate, famiglie distrutte, aziende mandate in malora, patrimoni sacrificati, posti di lavoro cancellati per poter continuare a ritenere che si tratti di naturali incidenti di percorso o sopportabili danni collaterali di un’azione purtuttavia meritoria. Nessun merito, invece, nel forzare metodi e calpestare persone coinvolte in via presunta e marginale eppure colpite con ferocia.
Il nostro ordinamento giuridico lo vieta prim’ancora che il buon senso e la ragione. È scritto nella nostra Costituzione – per molti la più bella del mondo – che si è innocenti fino a prova contraria e cioè fino alla condanna definitiva stabilita da un tribunale. L’eccezionalità spesso invocata per giustificare mezzi e conclusioni rozzi e affrettate non può essere l’alibi per sconvolgere il fondamento del vivere civile.
Tanto più che nessuno paga per le cantonate prese e le conseguenti misure adottate nel disprezzo dei principi di diligenza e accuratezza. Tutto è ammesso pur di veder trionfare le proprie convinzioni, per tenere in vita impianti accusatori che alla prova dei fatti, sempre troppo tardi, si rivelano lacunosi e tendenziosi. Ed è questo il peggior servizio alla causa di una giustizia di nome e non di fatto.
L’immagine di eroi e di salvatori della Patria che i più facinorosi si conquistano – attenzione, non manca chi può definirsi davvero tale – è così ricercata da essere inseguita anche nei processi ordinari dove l’attuale ministro Carlo Nordio promette di intervenire con una riforma finalmente risolutiva. Altri prima di lui ci hanno provato e rimesso le penne perché chi tocca certi fili (professionalmente) muore.
Forse è venuto davvero il tempo di rimettere in equilibrio poteri che nelle vere democrazie – Montesquieu insegna – devono fronteggiarsi alla pari e bilanciarsi senza che nessuno prenda il sopravvento sugli altri. L’arrendevolezza della politica nei confronti di un apparato inquirente sempre più arrogante e destabilizzante ha fatto il suo tempo e le sue vittime. È giunto il tempo di ripristinare le regole.
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