Due tenere immagini in bianco e nero, la prima in braccio alla madre Jole, apprezzata sarta, e la seconda con il papà Giuseppe, che muore quando Lucio ha solo sette anni; poi i suoi giocattoli, le buffe foto di scena e le locandine degli spettacoli teatrali in cui si esibiva da ragazzino, scatti delle vacanze estive trascorse a Manfredonia con la famiglia, le pagelle scolastiche, l’adorato clarinetto, la prima macchina da scrivere, le lettere agli amici, le cover dei suoi dischi, gli occhiali, le valigie, i cappelli, i testi autografi delle canzoni, persino un presepe della sua collezione e la documentazione fotografica della sua prolifica carriera artistica, dagli esordi agli approdi televisivi e cinematografici, e dei mille incontri della sua caleidoscopica vita, con una particolare attenzione al rapporto con la città di Roma, a cui dedicò nel 1980 una delle sue canzoni più belle, La sera dei miracoli.
Aperta nella sede prestigiosa dell’Ara Pacis fino all’Epifania (ma quasi certamente sarà prorogata) l’esposizione è la tappa romana della mostra intitolata Dalla. Anche se il tempo passa, partita da Bologna e che toccherà nel 2023 (a 80 anni dalla nascita del cantautore) anche Napoli e Milano.
Solo un cantante o piuttosto un cantastorie, un menestrello, un giullare, un allegro folletto, un poeta, un artista dalle molteplici sfaccettature? Lui si definiva in altri modi. “Un affabulatore da osteria” che era stato “un bambino prodigio” (“a 15 anni ho smesso per motivi evidenti: non ero più né bambino né prodigio”). Tanto scoppiettante quando si esibiva quanto assolutamente discreto e riservato nel privato, ammetteva con candore: “Io sono uno che fa un mestiere, il cantautore, per il resto sono un tipo comune, con interessi comuni”. Dotato di una sorprendente umiltà, per essere un uomo di spettacolo (si considerava “uno da niente”, “un peccatore perdonato”), precisava: “Sono un uomo abbastanza appartato anche a livello di sentimenti”. Non era privo di smaccata autoironia, quando affermava di sé: “Mi sono simpatico fisicamente. Piccolo di statura, con i miei pelacci, la mia testa rapata. Non ho complessi”. E aveva un rapporto meraviglioso con il suo pubblico, al punto di ammettere: “Io amo il mio lavoro perché mi dà la possibilità di stare in mezzo alla gente, di parlare con la gente, di essere utile […] se in quei momenti sei sincero, la gente lo capisce”.
Irrequieto, sempre in ricerca (“il bolognese non è mai un uomo tranquillo, anche se il suo aspetto è pacioso”), Dalla amava sperimentare nuovi mondi: non solo lo musica, ma anche il teatro, il cinema, la televisione. Oggi sarebbe un assiduo frequentatore dei social. Non si accontentava dei traguardi raggiunti, ma guardava sempre avanti. Per lui “il presente è come sabbia nelle mani, fugge via, scivola”. Invece “il futuro è elettrizzante” perché è sempre più interessante “quello che deve ancora arrivare […] c’è fascino in tutto quello che deve accadere”. Insomma “il domani te lo immagini, lo costruisci, è un’incognita”. Non lo puoi possedere, lo aspetti. Il suo cangiante universo è costituto di cose semplici: le rondini (“vivono in maniera modesta ma esaltante, come fossero dei santi”), il mare (“le mie canzoni, con il mare protagonista, sono l’80 per cento”), il rapporto con la madre (“mi ha dato una grande assistenza morale”), le automobili e i motori (“una forma di desiderio”, e si pensi all’epico omaggio a Nuvolari: “La gente aspetta il suo arrivo per ore e ore”). Aborriva “il lusso stupido, sfrontato” (giusto “procurarsi gli agi necessari […] ma non ho il cesso con le maniglie d’oro”).
Lucio Dalla aveva una sensibilità religiosa profonda, evidente in alcune sue canzoni, anche se sosteneva di avere con la religione “un rapporto certo poco ortodosso”, che tuttavia non gli impediva di riconoscere la bellezza del Sacrificio eucaristico: “Vado a Messa regolarmente […] sono affascinato soprattutto dalla sua teatralità, dal gesto che nonostante ogni formalismo, per esempio un prete che fa una brutta predica, riesce ugualmente a stupirmi”.
Il catalogo della mostra all’Ara Pacis presenta, tra le tante commosse testimonianze su Dalla, anche quella di padre Bernardo Gianluigi Boschi, domenicano, illustre studioso, amico e confessore del cantante, che racconta il loro primo incontro, un mattino, all’uscita del convento di San Domenico, a Bologna. “È lei padre Bernardo? Ho sentito che è un grande biblista, vorrei conoscerla meglio. Io abito a due passi da qui: potremmo vederci spesso?”. Padre Bernardo è morto lo scorso luglio, a 85 anni, quando il catalogo era già in stampa. All’omelia dei funerali di Dalla, il 4 marzo di dieci anni fa, nella basilica di San Petronio, disse tra l’altro che Lucio “con la parola e con la musica scolpiva nelle nostre anime.”
“Ogni tanto si fermava in convento, seguendo il ritmo conventuale per alcuni giorni, soprattutto in periodo natalizio”. Sempre padre Bernardo, nell’omelia ai funerali, sottolineò che la sua fede “passava attraverso l’uomo e rifletteva la sua umanità” e aveva “un colloquio con Dio incredibile”. In Fammi volare, un racconto scritto nel maggio 2010 per i frati di Assisi, pubblicato sul loro sito il giorno della sua morte, Dalla afferma che “il vero Tempio, la vera casa di Dio, è la nostra anima, anche quella più buia o più difficile da raggiungere”.
Il cantautore morì nella cittadina svizzera di Montreux, dove si trovava per un concerto, alle 10.30 del 1° marzo 2012. Alla stessa ora ogni anno i padri domenicani di Bologna lo ricordano in San Domenico con una Messa, “l’unica cosa a cui veramente Lucio avrebbe tenuto”.
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