È incredibile come le proteste si stiano aggravando in Italia e nello stesso tempo come la maggioranza delle persone, quelle che probabilmente non partecipano alle manifestazioni, sembrino quasi immobili, in attesa rassegnata di una risposta ai loro problemi dalla politica, dai partiti che dovrebbero cogliere quello che non funziona nella società civile. E tanti non attendono neppure più una risposta, dopo essere piombati in una disillusione profonda e in uno stato di incredulità.
In questi giorni di Natale l’atmosfera resta sempre malinconica e si accentuano con rimpianto i ricordi di anni dove si affrontavano con speranza anche i sacrifici più gravi.
Intendiamoci, questo problema che è stato definito di “tristezza giovanile”, per usare il titolo di un grande quotidiano inglese, non riguarda solo i cosiddetti “millennials” (letteralmente quelli nati tra il 1981 e il 1998) ma diverse generazioni passate e anche quelli che sono nati dopo il duemila, quando si usa dire la generazione Y, quella X e quella Z.
Ovviamente, in base a osservazioni generali, la “grande tristezza” non riguarda solo il nostro Paese.
Il problema di tutto questo è da ricercare con grande attenzione, perché nel loro sviluppo le società, fin dalla nascita, si fondano sempre su auto-organizzazioni che cercano di rispondere alle loro esigenze, nei più diversi settori, che si creano alla base di una comunità, ma poi hanno bisogno, forse per la funzione che lo Stato ha sempre più avuto con il passare dei secoli, di classi dirigenti e di leadership che sapessero interpretare le istanze delle grandi organizzazioni sociali che si formavano per passione civile e comunitaria.
Il vero nocciolo delle democrazie sta sempre tra il legame dei cittadini e di chi li rappresenta. Tra una continua dialettica tra la cosiddetta sussidiarietà orizzontale e quella verticale.
È probabile che nei gradi passaggi epocali, questa continua dialettica si aggiorni, a volte con semplicità, a volte con difficoltà, a volte con tragedie, arrivando alle guerre e agli sconvolgimenti geopolitici mondiali e naturalmente a quelli sociali che riguardano le singole nazioni. E poi c’è sempre il rischio esiziale che, al posto della dialettica tra rappresentanti e rappresentati, si faccia spazio, nella tristezza che diventa disperazione, la volontà del singolo o di una oligarchia che risolve tutto. Gli esempi sono “millanta che tutta notte canta”.
Forse la “grande tristezza” sta proprio in questo passaggio che appanna il passato e fa intravedere solo di poco il futuro. Ora, c è da ritenere che un esperto di grandi relazioni internazionali e un regista di grandi accordi internazionali possa tenere in poca considerazione il principio di sussidiarietà e lo si ricordi sopratutto come un denigratore di politici e della politica italiana. Eppure nel suo ultimo libro, Henry Kissinger (è di lui che parliamo) fotografa meglio di altri l’attuale situazione con una introduzione di Leadership (il titolo del libro) che spiega molto bene il momento della “grande tristezza”, della “grande confusione” e della “grande incertezza”.
Spiega Kissinger nella sua introduzione: “Ogni società, qualunque sistema politico abbia, si trova eternamente in bilico tra un passato che rappresenta la sua memoria e una visione del futuro che ispira la sua evoluzione. Lungo questa strada è indispensabile avere una leadership, occorre prendere decisioni, conquistarsi fiducia, mantenere promesse, proporre una rotta da seguire. All’interno delle istituzioni umane – Stati, chiese, eserciti, aziende, scuole – è necessaria una guida che aiuti il popolo a passare dal punto in cui si trova a uno in cui non è mai stato e, a volte, non sa neanche immaginare di andare. Senza una leadership, le istituzioni vanno alla deriva e le nazioni rischiano di diventare sempre più irrilevanti e, alla fine, crollano”.
Queste parole del novantanovenne Kissinger possono anche rivelare un “tratto decisionista”, che in genere gli italiani condannano, anche se i loro nonni o bisnonni andavano addirittura vestiti da “balilla” in stragrande e impressionante maggioranza. Ma qui non si vuole aprire nessun discorso su “redenti”, “passato”, “passato prossimo” e “presente”. Si vuole solo vedere come la politica italiana, rispetto alle decisioni da prendere, stia galleggiando senza alcuna vera prospettiva, e si rifiuti di rispondere con decisioni, promesse serie e certezze alle domande che vengono da un popolo posseduto ormai da una vera “grande tristezza”. Si può anche sbagliare, ma la nobiltà della politica è il valore della decisione sincera, che nasce da una sensibilità artistica più che da una somma di competenze.
Ripetiamo, sotto un altro punto di vista, che la crisi generale della politica non riguarda solo l’Italia. Il problema ha due aspetti fondamentali: il crollo delle ideologie del Novecento, sostituite dal nulla, e il perenne discorso sul finanziamento dei partiti.
Alla fine, in quasi tutto il mondo democratico, la politica si è inchinata di fronte all’espansione del potere della finanza più ancora di quello dell’economia. Non finiremo mai di ripetere che dopo la crisi finanziaria del 2008, in quel mondo dove il “denaro è diventato imperatore” indiscusso, non è cambiato nulla malgrado le promesse e gli impegni proposti; non finiremo mai di ripetere che il Parlamento sta a Davos; non finiremo mai di ripetere che è la Bce a dettare la politica europea, anche attraverso, al momento, una signora che ha fatto l’avvocato d’affari, che mette in atto quello che più le conviene senza alcuna visione.
Infine, ritornando all’Italia, non finiremo mai di affermare che, liquidata la “prima repubblica” per questioni economico-finanziarie e di alleanze politiche tra poteri vecchi e decadenti, per nascondere gli errori di una grande ipocrisia, i quattro ministeri tecnici di questi ultimi trenta anni, tra austerità e falsa politica di espansione promessa, non hanno fornito alcuna visione e non hanno realizzato alcuna promessa.
Solo l’ironia della storia, i corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico, le ripetizioni storiche formulate da Hegel e Marx stanno smascherando l’ipocrisia italiana, che è una malattia congenita secolare.
Mentre il popolo della “grande tristezza” aspetta risposte sincere e decisioni, il maggior partito di un’ormai sedicente sinistra sta decidendo chi sarà il suo futuro segretario e fa un congresso, tra qualche mese, probabilmente per cambiare nuovamente nome e magari dividersi di nuovo. Per dare un colpo finale alla sua “questione morale” tanto sbandierata, si limita a condannare, come fosse un estraneo, solo un ex segretario della Camera del lavoro di Milano che, da eurodeputato di sinistra, è diventato il “re delle mazzette” del Parlamento europeo.
Dall’altro c’è una destra pasticciona, che non si capisce bene che cosa voglia o che cosa possa promettere. Aggiungiamo pure Giuseppe Conte con le sue comiche acrobazie e le incursioni da slalom perpetuo di Carlo Calenda e Matteo Renzi.
In questo guazzabuglio possiamo almeno sperare non in un leader ma in una leadership che esca da un partito normale da costituire, che si ricordi del passato e cerchi di intravedere il futuro in evoluzione?
Solo in questo modo si può forse superare la “grande tristezza”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.