Il ministro del Lavoro nell’audizione al Parlamento del 20 dicembre non ha affrontato la questione delle dimissioni. Il Rapporto annuale 2021 dell’Ispettorato nazionale del lavoro analizza il fenomeno delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri nei primi tre anni di vita della prole. Delle 52.436 convalide totali, 37.662 (il 71,8%) si riferiscono a donne e 14.774 (28,2%) a uomini. Anche in questa annualità si conferma il tradizionale squilibrio di genere.
Su tale Rapporto degli ispettori ben poco è stato analizzato. Sicuramente introdurre il modulo a data certa in tutti i casi di dimissioni e risoluzioni consensuali è necessario, razionale, corrisponde: all’interesse di lavoratrici e lavoratori a non subire un’umiliazione essendo per di più gravati del difficile onere di dimostrarla; all’interesse dei datori di lavoro onesti a non subire pratiche di concorrenza sleale; all’interesse di tutti a diminuire il contenzioso. Per la lavoratrice madre (il lavoratore padre) si tratta del diritto a sospendere gli effetti di una decisione delicata e importante assunta in un periodo ad alta vulnerabilità, e a riformularla in campo neutro, lontano da condizionamenti, verificando le eventuali alternative nel colloquio con gli ispettori.
I dati sulle convalide delle dimissioni dei lavoratori genitori, oltre a descrivere l’andamento del fenomeno, registrano lo stato di salute delle politiche di conciliazione dei tempi di lavoro e di cura: ogni rinuncia al posto di lavoro motivata con l’incompatibilità tra l’occupazione lavorativa e l’assistenza al figlio, con l’assenza o il costo alto dei servizi, con l’indisponibilità di familiari di supporto, con orari troppo rigidi e/o mancata concessione del part-time (sono le motivazioni più frequentemente riferite, o per cambiamento di attività, in crescita, può presentare una correlazione con le stesse esigenze) rappresenta una denuncia dell’inefficienza di tali politiche e fornisce indicazioni sui bisogni reali delle persone e sugli ambienti lavorativi più refrattari a offrire risposte organizzative adeguate.
Per valutare l’attendibilità dei dati e per capire se non ci siano situazioni che sfuggono alla rilevazione statistica pur traendo beneficio dall’esistenza della procedura è necessario affrontare il vero problema: la procedura di garanzia, copre uno spettro di situazioni e interessi più vasto rispetto alla fattispecie identificata con l’espressione “dimissioni in bianco”. Bisogna operare una protezione estesa e robusta: politiche attive concrete per accertarsi che prassi burocratiche sbrigative e/o il consolidarsi di difformità territoriali troppo marcate sostituiscano l’aspetto promozionale dei diritti di conciliazione anche attraverso una formazione specifica dei funzionari, facendo in modo che resti sempre una traccia statistica dei “ripensamenti” e dando visibilità anche alle motivazioni delle “mancate convalide”. Si tratta del diritto di revocare le dimissioni: sette giorni di tempo, nei quali il lavoratore può convalidarle o contestarle come non autentiche, o anche solo revocarle, cioè ripensarci senza dover dimostrare di aver subito pressioni. Quella settimana realizza una tutela circoscritta nel tempo, ma ampia: dalla volontà estorta (in qualsiasi forma), ad azioni di condizionamento/pressione al limite dell’indimostrabilità, fino alla decisione avventata e al conseguente ripensamento. Ma quando la modalità prescelta per la conferma delle dimissioni è la “sottoscrizione in calce” si consente al datore di lavoro di bruciare i tempi facendo immediatamente sottoscrivere la ricevuta alla lavoratrice/lavoratore, “prima che ci ripensi”: una firma in più, una semplice formalità, che il lavoratore potrebbe posticipare di una settimana – ma nessuno controlla che sia effettivamente messo in grado di farlo – adempiuta la quale la decisione diventa irrevocabile.
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