Il Mes non lo prenderemo mai, dice Giorgia Meloni: ed è in buona fede. Le “condizionalità” cui uno Stato sovrano dell’Unione deve sottostare per intascare i fondi del Meccanismo salva-Stati sono talmente vincolanti da ridurne alquanto la sovranità. E Giorgia questo non lo vuole e non firmerà mai, ha detto.
Ma il Mes in teoria per l’Italia potrebbe valere al massimo 37 miliardi. Sapete invece quanti miliardi di titoli a medio-lungo termine il Tesoro dello Stato prevede di dover collocare sui mercati nei prossimi dodici mesi del 2023?
Tenetevi forte: 320 miliardi. Avete letto bene: 320 miliardi di euro, che servono come l’ossigeno al nostro Paese per coprire il deficit di bilancio, ossia la differenza tra le entrate dello Stato e le uscite della spesa pubblica.
Ora, chiediamocelo: ma se quei 37 miliardi ci legano le mani e, giustamente, Giorgia non li vuole usare, quanto più ce le legheranno gli altri 320?
Ma approfondiamo. Come si arriva a questa cifra iperbolica? Lo rivela il documento del Mef intitolato “Linee guida della gestione del debito pubblico 2023”. Ebbene: il prossimo anno le esigenze di finanziamento saranno generate dalle scadenze dei titoli in circolazione che, al netto dei Bot, saranno pari a poco meno di 260 miliardi di euro e dal nuovo fabbisogno del settore statale dell’anno. E a quanto ammonterà, quest’ultimo? In base alle stime preliminari dovrebbe attestarsi intorno ai 90 miliardi di euro.
Per piazzarli a qualche investitore – dalla famiglia del signor Rossi alle Assicurazioni Generali, dal Fondo sovrano di Abu Dhabi alla Deutsche Bank o a Blackrock – lo Stato “emittente” deve convincerlo di due cose. Una facilmente credibile: che l’Italia non fallirà, cioè che riuscirà comunque a rimborsare i suoi debiti. Ovvio: è troppo grande per fallire. Più difficile invece convincerli che la concreta eventualità di una crisi finanziaria non costringa lo Stato a remunerare molto di più le nuove emissioni per renderle appetibili, determinando così un drastico deprezzamento di quelle già emesse sul mercato secondario. Il che nulla pregiudica dei diritti dell’investitore a intascare le cedole e poi recuperare il capitale alla scadenza del titolo, ma se invece volesse venderlo durante la sua vita ricaverebbe assai poco. È proprio questo merito di stabilità del valore del “mantello” del titolo – cioè della stabilità del suo valore di rimborso anticipato – che viene espresso dal rating e che vede i nostri titoli pubblici mal messi.
Noi italiani abbiamo la memoria corta e ci siamo dimenticati la crisi dello spread, quando nel 2011 e nel 2012 il differenziale tra i rendimenti del Bund tedeschi e quelli dei titoli italiani era a circa 600 punti base… Ma in quelle condizioni piazzare nuove emissioni di Btp italiani sul mercato comportava la necessità di proporli con un rendimento altissimo, e quindi assai dispendioso da essere pagato, con l’innesco di un circolo vizioso tra spesa pubblica da finanziare emettendo Btp e spesa pubblica da incrementare per piazzare quei Btp e rimborsarli a scadenza.
Cosa significa tutto ciò in termini pratici, in parole povere?
Viene da evocare Brenno, il condottiero gallo capo della tribù dei Senoni che nel 380 avanti Cristo conquistò Roma. Conquistata Roma, la mise al sacco: e quando i resistenti tentarono la riscossa lui impose un riscatto di 1000 libbre d’oro. Durante il peso, i romani protestarono affermando che le bilance fossero truccate, e Brenno posò il suo spadone su un piatto, per far capire come quella cerimonia fosse solo formale, e gridò: “Guai ai vinti!”.
Ecco: i vinti siamo noi. Da quarant’anni viviamo al di sopra dei nostri mezzi, ovvero: noi no, che infatti risparmiamo tantissimi soldi, ma il nostro Stato sì, il famoso “Pantalone” che paga, come dice il vecchio adagio.
Basta passare in rassegna i numerosissimi governi che si sono susseguiti da quando, negli anni Ottanta, il debito pubblico è andato fuori controllo per ricordarsene. Abbiamo finanziato la spesa emettendo Bot, e coperto col debito pubblico ogni dissipazione, ogni ruberia.
Alcuni governi hanno frenato o addirittura brevemente invertito la tendenza: sostanzialmente quelli dell’Ulivo, il governo Prodi del ’96 e quello successivo, guidato da Massimo D’Alema. Ma attenzione: era un rigorismo contingente e strumentale, finalizzato allo scopo, poi effettivamente conseguito, e nessuno saprà mai se per il nostro bene o il nostro male, di agganciare la lira all’euro sin dalla prima fase dell’unificazione monetaria, che accadde poi ad un valore talmente alto (il famoso 1936,27 lire per un euro, inchiodando così l’euro di origine italiana al valore di quasi la metà di quello tedesco) da cancellare di un tratto una gran parte dei vantaggi economici scippati negli anni dall’Italia con le varie svalutazioni competitive, ultima delle quali quella del 1992.
E chi c’era, a guidare il Tesoro, in quei governi dell’Ulivo? Sorpresa: Mario Draghi. E chi orchestrò la più massiccia campagna di privatizzazioni mai fatta in Europa, trasferendo in mani straniere la maggior parte dei gioielli dell’industria pubblica italiana o le maggioranze dei pochi colossi rimasti ancorati allo Stato? Mario Draghi.
E chi ha teorizzato l’esistenza di un “debito buono” che oggi le banche centrali non riconoscono più come possibile? Mario Draghi.
È colpa di Draghi se oggi l’Italia è un debitore nelle mani dei suoi creditori stranieri, titolari di almeno un quarto del suo debito pubblico, che se non volessero ricomprare ci priverebbe di risorse economiche di uso quotidiano e di valore economico nazionale? Certo che no: ma dev’essere chiaro che in questa brutta storia del declino italiano e della schiavitù verso il mercato finanziario santi non se ne vedono. Gli errori sono stati di tanti, quasi di tutti. E oggi Meloni paga per tutti. Mes o non Mes.
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