Caro direttore, l’intervista rilasciata al Messaggero il 24 dicembre scorso da Maurizio Lupi, leader di Noi Moderati e promotore della cancellazione dell’aggettivo “congrua” dall’offerta il cui rifiuto comporti la decadenza dal Reddito di cittadinanza, è emblematica della sommarietà con cui si affronta la riforma dello strumento.
Un primo equivoco riguarda le politiche attive del lavoro. Rispondendo a una domanda dell’intervista, Lupi ricorda che il Rdc era stato presentato “come una politica attiva del lavoro. Invece in questi 5 anni (il Rdc è stato attivato nel 2019: compirà 4 anni ad aprile 2023… nda) non ha prodotto più lavoro“. Evidentemente, non risulta chiaro cosa siano le politiche attive del lavoro. Certo, la denominazione “politiche attive del lavoro” non risulta particolarmente felice e immediata; tuttavia, se si affronta sul piano tecnico la questione, occorre aver ben presente l’argomento.
Ebbene, le politiche attive non hanno e non possono avere affatto lo scopo di “produrre lavoro”. La creazione di lavoro, infatti, come risulta chiaro, deriva esclusivamente dalla crescita dell’economia, trascinata dagli investimenti delle imprese e dalle misure pubbliche di agevolazione. Le politiche attive del lavoro, lungi dallo sfiorare nemmeno l’iniziativa economica dell’imprenditore e la creazione di domanda di lavoro, sono esclusivamente un insieme di iniziative, finanziate da risorse pubbliche ma anche private, finalizzate a rendere più semplice l’intermediazione tra domanda di lavoro delle imprese e offerta dei lavoratori, in particolare agendo sull’attivazione dei disoccupati nel mercato, migliorando la loro spendibilità.
Una politica attiva del lavoro è un’iniziativa modulare, con la quale intercettare la persona che si rivolge ai servizi per l’aiuto alla ricerca, costruire il suo curriculum, percorrere i suoi titoli e le sue esperienze, comprenderne capacità e vocazioni, individuare quanto estesi siano eventuali gap rispetto alle competenze richieste dal mercato del lavoro per le figure professionali più congeniali o più indicate per un ingresso non troppo lontano nel tempo (tutto questo è la profilazione e l’orientamento), per poi generare servizi modulari, di entità inversamente proporzionale alla distanza del lavoratore dal mercato.
I servizi vanno dall’accompagnamento al lavoro, consistente in ricerche congegnate su opportunità di lavoro riferite a disoccupati con buona spendibilità; all’affinamento delle competenze, per rafforzare profili già comunque robusti, anche magari ricorrendo a tirocini; per passare all’aggiornamento professionale per superare obsolescenze delle competenze, attivando quindi specifici corsi; continuare con la riqualificazione professionale, cioè spingere verso una formazione professionale finalizzata all’acquisizione di nuove e diverse competenze, per poter aspirare a possibilità lavorative in ambiti professionali maggiormente competitivi, sulla base di corsi molto strutturati e composti anche da centinaia di ore. È, in sostanza, quanto prevede il programma Gol, che, infatti, non “produce lavoro”, ma offre ai disoccupati, a seconda della loro profilazione, uno di questi servizi.
Se si confondono gli investimenti sulle politiche del lavoro con quelli sulle politiche economiche, questi sì finalizzati potenzialmente ad aiutare il tessuto economico a espandersi e quindi a incrementare potenzialmente la domanda di lavoro, evidentemente non si va da nessuna parte.
Un fatto è, comunque, certamente vero. Il Rdc si è manifestato da subito debole proprio per essere stato concepito in modo da confondere il suo scopo fondamentale, il sostegno finanziario alle famiglie in stato di povertà, con politiche attive. L’iniziativa di ricerca attiva del lavoro è rimasta molto difficoltosa, soprattutto perché il Rdc non ha finanziato nessuno degli specifici servizi ricordati sopra: i percettori, per almeno il 70% persone lontanissime dal mercato e poco spendibili in quanto difficilmente accettabili dalle aziende, potevano solo di fatto ricostruire i propri curriculum e incontrare fittamente i servizi per verificare eventuali possibilità di lavoro che di fatto si sono presentate molto episodicamente. È ben strano che si decida di chiudere il Reddito proprio quando parte il programma Gol, che, invece, finalmente consente di abbinare ai disoccupati esattamente le politiche attive del lavoro che l’Italia non finanziava e progettava da anni. Ma, il problema è che si cerca di riformare (o eliminare, non è chiaro) il Reddito, senza nemmeno avere precisa cognizione di alcuni capisaldi fondamentali non solo per il RdC in sé, ma anche per il sistema complessivo delle politiche attive.
Ci riferiamo specificamente all’offerta “congrua”. Nell’intervista, Lupi afferma che “la parola ‘congrua’ è una parola equivoca. Chi decide che una offerta è congrua? Se sei assistito dallo Stato non ci può essere una corrispondenza tra la tua aspettativa e il lavoro che ti viene offerto“. Anche in questo caso si evidenzia un totale travisamento della questione. Si vuole, cioè, destare l’idea che la congruità dell’offerta sia un giudizio di valore espresso dal disoccupato percettore di Rdc, che possa liberamente rifiutare un’offerta di lavoro in quanto considerata non soddisfacente rispetto alla propria aspirazione professionale; simmetricamente, si dà così l’idea che il sistema dell’intermediazione domanda offerta di lavoro debba svolgersi avvicinando i disoccupati a un lavoro qualsiasi, purché sia lavoro, perché non bisogna fare gli schizzinosi.
È un modo di vedere il mercato del lavoro totalmente atecnico e, peraltro, influenzato da una conoscenza molto sommaria anche degli istituti operativi. Lupi, come ogni componente del Governo e del Parlamento, non può non sapere che la parola, meglio l’aggettivo, “congrua” non è per nulla equivoca e c’è da molto tempo “qualcuno” che ha già deciso che un’offerta sia congrua: questo “qualcuno” è composto da Parlamento e Governo. Come naturale che sia.
L’offerta di lavoro “congrua” è disciplinata in termini generali: a) dall’articolo 25 del d.lgs 150/2015 (il Jobs Act); b) dal DM 10 aprile 2018, n. 42; in particolare per il Reddito di cittadinanza, l’offerta “congrua” è regolata dall’articolo 4, comma 9, del d.l. 4/2019, convertito in legge 26/2019.
E la congruità deriva non da valutazioni intime e personali, bensì da elementi oggettivi, definiti dalle norme, che per il RdC sono:
– coerenza con le esperienze e le competenze maturate;
– distanza dal domicilio e tempi di trasferimento mediante mezzi di trasporto pubblico: nell’offerta congrua legata alla Naspi sarebbero 50 chilometri di distanza dal domicilio o un tempo di percorrenza di 80 minuti con mezzi pubblici; per il Reddito, 100 chilometri di distanza ed un tempo di percorrenza di 100 minuti;
– durata della disoccupazione;
– retribuzione superiore di almeno il 10% rispetto al beneficio massimo concesso con il Rdc fruibile da un solo individuo, inclusivo della componente a integrazione del reddito dei nuclei residenti in abitazione in locazione (cioè 780 euro);
– costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato oppure determinato o di somministrazione di durata non inferiore a un mese, a tempo pieno o con un orario di lavoro non inferiore all’80% di quello dell’ultimo contratto di lavoro;
– previsione di una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015.
Dunque, la congruità dell’offerta di lavoro è tutt’altro che qualcosa di astratto o indefinibile, anzi forse è fin troppo dettagliato. Specie nel mercato del lavoro italiano, caratterizzato da un’opacità eccessiva proprio della domanda di lavoro delle imprese, le quali ben difficilmente quando si rivolgono agli intermediari evidenziano gli elementi fondamentali della proposta di lavoro, quanto meno sede, mansioni, turni, profilo, trattamento economico lordo, contratto collettivo di riferimento, tempo di lavoro (pieno o parziale). Infatti, di offerte congrue, in senso tecnico, non se ne vede nemmeno l’ombra. Anche perché per molte aziende significherebbe uscire allo scoperto rispetto a pratiche di dumping contrattuale e salariale, che è meglio evidentemente tenere riservate.
Infine, una considerazione. Eliminare dall’offerta di lavoro la caratteristica della congruità non costituirà di certo una spinta particolare per il reperimento di lavoro dei percettori di Rdc.
Resta, infatti, un problema: anche se a esponenti del Governo e della maggioranza appare che agli imprenditori vada bene offrire un lavoro da cameriere anche a un laureato, nella vita reale funziona in modo molto diverso. I primi a cercare un coerenza possibile tra lavoro e titoli-competenze del lavoratore sono proprio gli imprenditori, poiché la distanza eccessiva tra competenze e mansioni è fortemente demotivante. Non solo: le imprese cercano lavoratori con esperienze e capacità il più possibile vicine alle mansioni necessarie e cercano di restringere quanto più possibile le ricerche entro raggi chilometrici contenuti, perché sanno che distanze eccessive poi portano il lavoratore a rinunciare.
Infine: i datori di lavoro, se non hanno reperito col passaparola i lavoratori (metodo purtroppo prevalente appunto per l’opacità del mercato) e si rivolgono ai servizi pubblici o privati, evidentemente non sanno chi sono i disoccupati, dove risiedono e che curriculum hanno.
Pertanto, una proposta di lavoro “non congrua” tale da poter determinare la decadenza dal Reddito, magari riferita a un lavoro a part-time, a tempo determinato di un mese per 3 ore la settimana a 150 chilometri di distanza dal domicilio del lavoratore, potrebbe essere veicolata solo da un intermediatore, cioè il Centro per l’impiego o le agenzie private autorizzate o accreditate che metta a disposizione dell’imprenditore insediato a 150 chilometri il nominativo di un percettore.
Ma, in primo luogo, i servizi operano in ambiti territoriali provinciali e quindi entro raggi di azione comunque contenuti; in secondo luogo, chi fa intermediazione ha il compito di avvicinare il lavoratore a opportunità di lavoro effettive, serie e sostenibili: non ha nessun senso tecnico, né etico, promuovere un’offerta di lavoro come quella sopra esemplificata.
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