In uno studio della Cambridge University viene sostenuta la tesi che le capacità che in alcuni casi definiamo talento o addirittura genio, non sono il frutto di un dono della natura con cui veniamo al mondo, bensì il risultato di una abilità innata (1%), istruzione di alto livello (29%) e una montagna di lavoro (70%). Nella ricerca, inoltre, ogni singola persona esaminata ha impiegato almeno un decennio di studio ed esercizio prima di ottenere riconoscimenti internazionali.
In più chi ce l’ha fatta ha avuto una figura chiave che lo ha aiutato o incoraggiato durante il percorso. Si sfalda così il mito del “super uomo-super artista” che da sempre usiamo quasi fosse un albi per giustificare chi è in grado di creare opere d’arte, in qualunque campo, qualcosa che a noi comuni mortali non è concesso. L’importanza del lavoro personale dietro alla creazione ad esempio di una canzone ci spiega anche perché, negli ultimi decenni, non si producono più reali opere d’arte: l’ignoranza largamente diffusa, il rifiuto della fatica implicita nel lavoro, l’uso e abuso delle strategie di marketing hanno azzerato questo fondamentale processo.
Michele Talo, direttore del Centro Consorzi, ente di formazione e servizi alle imprese di Belluno, nel suo primo libro dedicato a Bob Dylan (Trasparente come il vento, ruvido e rissoso, Flamingo Edizioni, 470 pagine, euro 19,90) compie una impresa straordinaria, qualcosa di assolutamente inedito in Italia, ponendosi così fra quei pochissimi intellettuali di tutto il mondo capaci di analizzare e indicare una via unica, forse l’unica, per capire come il premio Nobel per la letteratura abbia saputo scrivere così tanti capolavori.
Talo ha una profonda conoscenza culturale che non si trova normalmente tra chi scrive di musica rock: laureato in teorie e metodologie dell’e-learning e della media education, ha curato diverse pubblicazioni legate al recupero del sapere. In questo modo, affidandosi alla teoria del costruttivismo (un processo di apprendimento grazie al quale si tenta la costruzione di rappresentazioni, più o meno corrette e funzionali, del mondo in cui si interagisce), svela il mistero di Dylan. Un artista che, come detto da lui stesso (“chi non è impegnato a nascere, è impegnato a morire”) ogni giorno, partendo da fortissime basi culturali, ha aggiunto un tassello dopo l’altro a un percorso unico e straordinario, costruendo sul patrimonio culturale che ha studiato come nessun altro, partendo dalla musica popolare anglo americana e approdando negli ultimi anni ai poeti latini, a antichi scrittori e poeti americani del XIX secolo e finanche scrittori giapponesi. Dopo aver sperimentato con l’uso dell’inconscio (favorito anche da droghe e farmaci chimici, aggiungiamo a noi) è giunto a creare in modo conscio, disseminando la sua arte di elementi dell’esperienza con frammenti di letture, canzoni altrui, una tecnica quasi simile al cut-up di William Burroughs.
In fondo l’ha dichiarato pubblicamente: “love and theft”. Ma a differenza del plagiarismo, non si è preoccupato di nascondere questi elementi, li ha messi bene in evidenza in modo che l’ascoltatore o il lettore potessero giungervi anche loro e lasciandoli completamente liberi di trarne le conclusioni. Dylan non vuole e non può spiegare le sue canzoni. “L’artista duraturo, quello che Dylan ha definito riferendosi a Picasso, è di fatto un ricercatore che nel proprio processo combina esperienze che derivano da questi apprendimenti” scrive Talo. E ancora: “La parola autore sta ad indicare colui che ha creato, ma anche colui che ha completato”. E dando un definitivo accento alla problematica, dice Talo: “C’è quindi un filo che può legare il concetto di ispirazione ad Amore e furto: amore è la passione con cui ci approcciamo (la dimensione interna), la nostra parte istintiva, mentre il furto è la capacità di guardare, osservare, di rendere applicabili nel nostro contesto e per il nostro contesto, le informazioni che ci arrivano (la dimensione esterna ed esperenziale) (…) Ogni lavoro comunque pur con dimensioni diverse, ha dentro di sé una componente di amore e furto”.
Giustamente Dylan si è indignato quando esegeti superficiali hanno denunciato nei suoi testi o nelle sue musiche il ritrovamento di opere altrui: “Se parliamo di Henry Timrod, ne hai mai sentito parlare? Chi l’ha letto ultimamente? Chi l’ha portato alla ribalta? Chiedi ai suoi eredi cosa ne pensano del casino che ne è nato. E se credi sia tanto facile citarlo e che sia di aiuto per il tuo lavoro, fallo e vedi se vai distante”.
In questo senso Bob Dylan all’interno della musica rock e pop è una figura straordinariamente originale. Un osservatore acuto della realtà, rielaborata nell’inconscio, un attento studioso di fonti culturali tra le più diverse e sconosciute alle masse, che nelle sue canzoni sono inserite come una mappa a cui ognuno può liberamente far riferimento come ritiene opportuno.
Michele Talo, che poi si concentrerà a fondo nel corso del libro su quello che è l’ultimo disco dell’artista americano, Rough and rowdy ways, con questo libro non fa una disanima di Dylan e basta: ci insegna come capire e studiare il processo artistico, tra psicologia, linguaggi, metodologie. Un libro che in Italia non ha paragoni. Imperdibile.