Se c’è un terreno su cui più ampio era il margine di recupero rispetto ai governi precedenti, questo è la politica estera. E Giorgia Meloni nella conferenza stampa di fine anno ha dimostrato di averlo ben presente. Dal suo intervento si ricava l’immagine di un Paese che vuol tornare a recitare da protagonista sulla scena internazionale, dopo un decennio di appannamento, da quando Berlusconi non seppe fare argine ai francesi che, con la condiscendenza degli americani, avevano deciso di sostituire in Libia l’influenza italiana con la loro. Da allora, di fatto, l’Italia ha recitato uno ruolo da comprimario, sempre all’inseguimento, tranne forse per alcune uscite europeiste di Sergio Mattarella e per il prestigio personale di Mario Draghi.
È sul Mediterraneo che s’intravedono i segnali di maggiore novità: la volontà di mettere a frutto la posizione della Penisola come ponte. Il tema energetico s’intreccia con quello della gestione dei migranti. L’idea di un “piano Mattei” per l’Africa, già espressa negli scorsi mesi, sottintende un atteggiamento non predatorio, che coincide largamente con il pensiero del Quirinale. Un programma di sostegno ai Paesi africani per la produzione di quell’energia necessaria all’Europa, ma anche allo sviluppo della sponda meridionale del Mediterraneo. È un approccio che la Meloni sta esponendo nei suoi colloqui a livello internazionale (una quarantina in due mesi), a cominciare dal presidente americano Biden, sino al premier greco Mitsotakis.
In questa attenzione nuova verso il Mediterraneo va compreso il cambio di passo sul tema dei migranti: la premier italiana sta cercando di guidare un “fronte del sud” che chiede da Bruxelles maggiore attenzione e si rifiuta categoricamente di portare da solo il peso del flusso migratorio. Cogliere quindi l’occasione dell’energia per offrire aiuti all’Africa come Unione Europea anche per gestire meglio le partenze prima che queste avvengano. È necessario garantire il diritto a non partire, ha spiegato in conferenza stampa, aggiungendo che bisogna recuperare terreno rispetto a chi si è insinuato nel vuoto lasciato dall’Europa: Turchia, Cina e Russia.
Nei confronti dell’Unione il pressing di Palazzo Chigi sembra destinato quindi ad aumentare nei prossimi mesi. Meloni ha annunciato la richiesta di rivedere il Mes, perché ingenti risorse rischiano di rimanere congelate in un meccanismo troppo oneroso cui nessun Paese ricorrerà mai, di certo non l’Italia con lei al governo. Anche sulla revisione del Patto di stabilità, prevista per il prossimo anno, ha annunciato battaglia, dal momento che, a suo giudizio, dovrà essere orientato più alla crescita che non al controllo della spesa, con lo scorporo degli investimenti dal computo del debito.
Per la leader di Fratelli d’Italia la prospettiva continentale ottimale è confederale, e non federale. È nelle intenzioni una distinzione sostanziale: delegare alcune specifiche grandi questioni alle istituzioni comuni, lasciando agli Stati nazionali le questioni più minute, secondo il principio di sussidiarietà. Una reazione a quella che è stata definita la pervasività della burocrazia comunitaria.
Di certo nella visione della Meloni una delle materie da affrontare su scala plurinazionale è quella della difesa. Uno strumento europeo complementare con quello della Nato, anche perché – ha ammesso – a volte le sensibilità fra le due sponde dell’Atlantico possono non coincidere. E in questo ambito l’Italia è pronta a fare la sua parte, perché – ha spiegato – “la libertà delle nazioni ha un costo”. Sì, quindi, al graduale aumento delle spese militari chiesto nell’ambito dell’Alleanza Atlantica: salire dall’1,4% al 2% del Pil (8 miliardi di euro in più) magari spalmando l’aumento sino al 2026, come ipotizzato da Draghi, due anni in più rispetto alle richieste Nato.
Di certo l’Italia di Meloni intende essere un partner affidabile e intransigente: non intende far finta di niente rispetto alla sistematica violazione dei diritti umani in Iran (con l’annuncio di un radicale cambio di atteggiamento, sin qui molto dialogante) e sostegno ribadito all’Ucraina. L’aggressione russa è vista come un errore grave e inaccettabile, perché afferma la legge del più forte e distrugge il diritto internazionale. A Kiev la premier conta di recarsi entro fine febbraio e s’è già detta disponibile a schierare l’Italia fra i Paesi garanti di un futuro accordo di pace. Indice, se ce ne fosse ancora la necessità, di un protagonismo nuovo che il governo di centrodestra vuole provare a interpretare.
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