La mossa senza dubbio più spregiudicata compiuta a livello di pensiero da Benedetto XVI – un livello che non è appena quello di una spiegazione intellettuale ma di un’esperienza esistenziale – è aver compreso e testimoniato uno tra i compiti più urgenti, forse quello più necessario, che la fede cristiana è chiamata ad assumersi nel XXI secolo: riconoscere e ridestare tutta la grandezza della ragione umana.
Nella densissima bibliografia del professore di teologia Joseph Ratzinger e negli innumerevoli interventi e documenti del suo pontificato, spicca senz’altro per una sua singolare importanza il discorso tenuto all’Università di Regensburg il 12 settembre 2006. Molti lo ricorderanno per il divampare della reazione polemica, e in alcuni casi violenta, ad alcune affermazioni sull’islam e il suo Profeta, riportate in quel discorso e tratte da un dialogo risalente alla fine del XIV secolo tra l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo e un saggio interlocutore persiano sulla differenza tra cristianesimo e islam. Molti, anche tra i cristiani, si chiesero in quell’occasione se fosse opportuno (e in alcuni casi lecito) che il Pontefice si arrischiasse ad entrare in un giudizio teologico così “politicamente” delicato e a rischio di alimentare un divisivo pregiudizio anti-islamico (esattamente cinque anni prima era accaduto lo shock dell’attentato alle Torri gemelle di New York). Altri, tra cui diverse personalità laiche, videro invece in quell’intervento una difesa opportuna e risoluta della cultura occidentale, erede della tradizione greca e cristiana, rispetto alle derive del fondamentalismo religioso.
Oggi, a distanza di 17 anni da quel memorabile discorso, entrambe le reazioni ci sembrano insufficienti, se non capziose. Non uno scontro religioso tra cristianesimo e islam, né la riproposizione della superiorità della civilizzazione europea sul resto del mondo costituiscono la posta in gioco indicata da Benedetto XVI, ma esattamente il contrario. E cioè il motivo per cui si è giunti da un lato a intendere la fede religiosa come un atto di imposizione irrazionale e tendenzialmente violenta, e dall’altro a intendere l’Occidente di matrice europea come il luogo in cui la fede è ormai estromessa dalla conoscenza universale che assume come suo unico parametro le misure della scienza.
La mossa spregiudicata, spiazzante di cui dicevo, consisteva invece nello spostare il focus del problema: non più quello dell’opposizione moderna tra scienza e religione, con la conseguente dialettica dei due lati – in realtà complementari – del positivismo e del fideismo; e neanche quello dell’opposizione tra la conoscenza oggettiva del mondo e l’etica dell’esperienza soggettiva. Il problema è più radicale, ed è quello di tornare a comprendere quale siano la natura, i compiti e i limiti della nostra ragione. Ciò che più colpisce, in questo discorso, e ciò che lo rende a suo modo “epocale”, è però il fatto che questa difesa della ragione sia proposta da un uomo e da un testimone della fede cristiana, la quale da parte sua è l’adesione a un evento di grazia – la rivelazione di Dio in Cristo – e non certo l’esito di una nostra indagine razionale o di una nostra dimostrazione intellettuale.
Questa posizione di “illuminismo” propriamente cristiano (come lo chiama lo stesso Benedetto XVI) si smarcava genialmente sia dallo stereotipo di una concezione della fede come l’“al di là” della conoscenza, sia dall’altro rischio di ridurre la fede a impeto e condotta puramente morale. Bisogna tornare a comprendere di nuovo perché “l’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non [è stato] un semplice caso”, ma una “necessità intrinseca”. L’esperienza originaria della storia cristiana – non solo all’inizio, ma anche oggi – è che Dio “agisce con logos”, e ancora più radicalmente che “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”, per usare le parole del famoso imperatore bizantino.
Questo incontro tra l’esperienza cristiana, nata in un luogo e in un tempo determinati, e la filosofia greca (che qui sta a significare la pratica di una razionalità universale) è ciò che ha permesso alla fede di auto-comprendersi nella sua ragionevolezza, e alla ragione di non essere più solo misura di sé stessa, tantomeno di chiudersi nei propri schemi pregiudiziali, ma di aprirsi a riconoscere l’altro da sé, l’evento storico che non si può dedurre da un ragionamento a priori, ma che al tempo stesso porta in sé un senso razionale. E razionale non solo in quanto comprensibile dalla ragione umana e corrispondente alle sue domande e alle sue attese. Ma razionale anche perché non puramente casuale o arbitrario, ma abitato da un senso riconoscibile, da una sensatezza non creata da noi, ma a noi offerta. Come qualcosa che accade e chiede di noi, ed è ragionevole accettare che ci raggiunga, ci interpelli e ci porti a riconoscere che il mondo è più grande – e più sensato – delle nostre misure.
Si tratta di “un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale”. La vera posta in gioco è se la ragione è solo un nostro schema mentale, solo una procedura dimostrativa (è certamente anche questo), o è una vera e propria “vita”, una capacità di incontrare l’essere e di farsi trovare dal “senso”. La questione dunque non può essere ridotta (né tanto meno risolta) svalutando le capacità di conoscenza e di azione della ragione umana, ma piuttosto ritrovando nelle sue performances qualcosa che rischia sempre di andare smarrito, e cioè la sua stessa capacità “critica”. È paradossalmente una “critica della ragione” – insisto, non una critica alla ragione, ma della ragione in sé sessa – il compito e il contributo più affascinante che l’esperienza cristiana può offrire al mondo oggi.
Niente di più lontano da un programma reattivo o dottrinalmente “reazionario” in difesa dei valori religiosi e cristiani contro le tendenze relativiste e naturaliste della cultura contemporanea. Questa “critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna”. Al contrario, si tratta di prendere sul serio la pretesa della modernità e di rilanciarla coraggiosamente, quasi temerariamente, ridestando la razionalità critica ad essere veramente sé stessa. Contro la ragione “dogmatica” o la ragione “pigra”, come le chiamava Kant, in contro-tendenza rispetto a coloro che ritengono ormai esaurita la spinta emancipatrice del mondo moderno (non a caso diventato postumo a sé stesso, appunto post-moderno), bisogna riprendere il suo progetto, come – ecco il paradosso – solo l’esperienza dell’incontro con un Altro da sé può permettere.
Vale la pena riascoltare alcune parole conclusive di quel discorso di 17 anni fa per capire la sfida di oggi: “Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione auto-decretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento [cioè a ciò che rientra nelle nostre misurazioni a priori], e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza”.
La gratitudine a Joseph Ratzinger, al Papa Benedetto XVI, da parte di chi – cristiano o laico che sia – vuole pensare il mondo, sta anche in questo gusto nuovo per la nostra ragione.
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