Siamo qui a riparlarne dopo quasi un anno. Il 23 dicembre 2022 Istat ha pubblicato l’andamento degli indici della retribuzione contrattuale per dipendente (totale dei settori economici per tutti i lavoratori esclusi i dirigenti). Il dato ci consente di confrontare l’andamento dei salari con l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.
Dato che entrambi gli indici sono calcolati con base 2015 uguale a 100, mettendoli sullo stesso grafico possiamo capire se rispetto al 2015 sono cresciuti di più i salari contrattuali o i prezzi dei beni che con quei salari si comprano. Le due curve, che finiscono a novembre 2022, sono riportate nel grafico qui sotto.
Guardando il grafico è chiaro che ormai la crescita dei prezzi supera la dinamica dei salari di oltre 10 punti. In questa situazione i salari reali calano e di conseguenza cala la domanda interna.
Certo i salari contrattuali non sono i salari effettivi, che potrebbero essere più alti per effetto di accordi locali o individuali, oppure più bassi quando l’applicazione dei contratti viene elusa o ignorata. Anche l’inflazione, che viene calcolata sui prezzi di un paniere standard, potrebbe essere più alta o più bassa per ognuno di noi, visto che nessuno compera veramente il paniere standard tutti i mesi. Resta il fatto che questi indicatori di riferimento ci dicono, al di là delle impressioni e delle esperienze personali nostre e dei nostri conoscenti, come vanno le cose mediamente per l’intera economia.
La dinamica dei salari e dei prezzi spiega anche molte delle dinamiche del mercato del lavoro che in questo anno sono state presentate come “grandi dimissioni”. In realtà, si tratta spesso di grandi cambi di posizione lavorativa in vista di aumenti salariali per le competenze professionali più ambite, oppure alla ricerca di posti di lavoro migliori anche dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro.
Nella riduzione dei salari reali si deve cercare anche la motivazione del rifiuto di lavori a salari bassi e mansioni semplici: l’aumento dei costi rende sempre meno conveniente accettare posti di lavoro che si trovano, ad esempio, lontano da casa e che richiedono costi di trasporto elevati. La riduzione dei salari reali rende più rigido il mercato del lavoro delle mansioni meno pagate e spinge i lavoratori a elevate competenze che percepiscono salari medio-alti a difendere il loro potere d’acquisto cambiando lavoro e accettando posizioni meglio retribuite.
Con i salari reali in calo possiamo aspettarci più polarizzazione del mercato e un livello più alto di skill gap, vale a dire un numero maggiore di posizioni lavorative che risultano difficili da coprire anche se i saldi occupazionali complessivi non crescono.
Le recenti misure del Governo volte a ridurre il ricorso al Reddito di cittadinanza probabilmente non colmeranno i divari: più disoccupati non fanno di per sé un’offerta di lavoro più qualificata. Il Reddito di cittadinanza è una misura che aveva intenzione di creare un sistema di sussidi incondizionati, nella visione utopica di chi l’aveva concepita. Le politiche attive del lavoro sono state appiccicate malamente al sussidio per rispondere alle obiezioni di “finanziare i fannulloni” che si sono levate da parti diverse, comprese alcune di quelle che sedevano al Governo.
L’esito catastrofico delle politiche attive attaccate al Reddito di cittadinanza dovrebbe avere insegnato che con il moralismo non si fanno politiche efficaci: non ci resta che sperare in un pragmatismo che abbia il coraggio di guardare i dati di fatto.
Se una persona cerca lavoro, dargli delle risorse e un aiuto a cercare occasioni e a formarsi migliora le sue possibilità, a parità di ogni altra condizione. Se cerca lavoro, ribadiamo. Se non cerca lavoro, dargli un sussidio e poi pretendere che i Centri pubblici per l’impiego lo convochino per cercare di portarglielo via è un’attività senza senso. In altre parole, la condizione di ricerca del lavoro va appurata prima dell’erogazione dei sussidi, non dopo, e i sussidi devono servire principalmente a pagare servizi.
La famosa abolizione della “congrua offerta” è purtroppo un altro editto forse giusto ma moralistico. Quale imprenditore perderà tempo a dimostrare che aveva fatto un’offerta a un percettore di Reddito di cittadinanza? Perché dovrebbe? Per togliersi uno sfizio politico o per conquistare qualche colonna sulla stampa locale forse, motivazioni economiche vere non ce ne sono. Davvero c’è chi vuole lavoratori costretti a lavorare perché minacciati?
E come faranno i Centri per l’impiego a dimostrare rifiuti, se sono costretti a convocare le persone con raccomandata con ricevuta di ritorno, magari col messo comunale? I tempi del mercato e quelli della burocrazia sono sempre sfalsati.
E se una persona non cerca lavoro come la riportiamo sul mercato? La domanda pare ormai uscita dal dibattito; la risposta implicita è che ritornerà per fame. Ma chi torna spinto solo dalla fame? Il prossimo che vuole programmare una politica del lavoro dovrebbe chiedere come fare alle realtà che con successo e in maniera sussidiaria si occupano di povertà e di lavoro per capire che le semplificazioni non reggono.
Mentre ci dilettiamo con esercizi di moralismo di Stato i motivi degli atteggiamenti selettivi dei lavoratori crescono, in maniera proporzionale alla discesa dei salari reali.
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