Uno dei luoghi comuni sulla traduzione è che questa sia un tipo di interpretazione, che tradurre, insomma, sia interpretare. Io penso esattamente il contrario e cioè che nell’interpretazione vengano messi in atto gli stessi mezzi utilizzati nella traduzione, che dunque sia il tradurre ad essere il modello per l’interpretare, non il contrario.
Questa ipotesi può trovare una conferma se osserviamo il vocabolario del greco classico che riguarda il tradurre. In particolare a quell’area concettuale che si condensa attorno a hermenèuo.
La prima volta che troviamo hermenèus nell’intero corpus della letteratura greca è in Pindaro, nella Seconda Olimpica, al verso 85: “Ho molte frecce veloci nella faretra, sotto il mio braccio: parlano a chi capisce; tuttavia, per l’insieme hanno bisogno di interpreti (hermenèon)”, dove le frecce rapide sono le parole del poeta con un riecheggiamento omerico (Iliade V, 106 e 112). Come ricorda Maurizio Bettini (Vertere: Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Torino, Einaudi 2012: 124-126) esistono inoltre tre citazioni di Aristotele presenti nelle Confutazioni sofistiche, nel De anima e nella Poetica, in cui Aristotele sembra interpretare hermenèia come la capacità di comunicare. Ipotesi che sembra confermata dal Simposio di Platone, in quel passo famosissimo in cui Diotima spiega a Socrate che l’uomo è un hermenèuon kai diaporthmèuon, “un interprete e un traghettatore”.
Hermenèus è una parola, come ha ricordato Gianfranco Folena, che ha resistito a tutti i tentativi ermeneutici e con un etimo misterioso (Volgarizzare e tradurre, Torino, Einaudi 1991: 5-6). In qualche modo Folena aveva ragione, perché gli studi della prima metà del Novecento non erano giunti a ipotesi chiare e proponevano l’origine del termine in un substrato mediterraneo o anatolico. Nel 1981 è intervenuta però una scoperta archeologica che ha reso possibile un’ipotesi in parte diversa.
In quell’anno John Ray, partendo dalle iscrizioni bilingui in lingua caria ed egizia di una tomba, è riuscito a proporre un’ipotesi che ha permesso di decifrare il cario. Nel corpus dei testi cari appare il termine armon, cioè il termine usato in quella lingua per definire l’interprete di lingue straniere, un termine da cui può essere derivato hermenèus per mezzo di un intermediario oppure grazie a un comune sostrato egeo-anatolico. Non ci interessa qui andare a fondo alla questione linguistica, quello che invece pare certo è che in un periodo molto antico la lingua greca ha un termine, preso a prestito dal cario, che indica la figura del traduttore/interprete e questo termine è hermenèus.
La questione etimologica è allora interessante perché se questo itinerario è corretto possiamo pensare che il senso primo di hermenèus fosse quello di qualcuno che traduce oralmente, di un interprete linguistico. I greci monolingui non hanno traduttori/interpreti e sono obbligati a utilizzare per questa professione degli stranieri dalla cui lingua traggono il termine per quella funzione, perché non avevano nulla nella loro lingua che vi corrispondesse. L’hermenèus, l’interprete, è colui che rende possibile la comprensione fra due culture che non si intendono perché non se ne possiede la lingua, qualcosa che i Greci non possono fare. Una lingua sconosciuta è incomprensibile, oscura, è fatta di suoni che appaiono inevitabilmente vuoti e consegnano chi ascolta al buio dell’incomprensione e alla deriva di qualunque senso. Dunque il traduttore è chi fa luce in questa oscurità dando una possibilità di comprensione. Ma “far luce” è anche il compito della filosofia, come per Platone: far sì che lo sguardo si rivolga dall’oscurità alla luce.
La traduzione/interpretazione è allora il modello per dare un senso a ciò che appare incomprensibile, come avviene con una lingua sconosciuta, o con un pensiero diverso o nuovo. In questo senso anche l’interpretazione come ermeneutica, in quanto tecnica di comprendere i testi o come metodo di comprensione proprio della filosofia, trova nella traduzione la sua origine. Rovesciando la prospettiva tradizionale, non è la traduzione che è un tipo di ermeneutica ma è l’ermeneutica che agisce come una sorta di traduzione. Ogni atto ermeneutico è un tipo di traduzione nella misura in cui pone in relazione un’estraneità con un soggetto. Tale estraneità può essere rappresentata da un individuo che non parla la nostra lingua o da un testo, scritto o orale, che non capiamo. La traduzione è dunque all’origine perché la questione non è comunicare ma comprendersi e trovare nell’altro qualcuno che ci corrisponda. La comunicazione è vuota se non passa attraverso una relazione che ci traduce, ci porta fuori della soggettività e può così dare un senso alla nostra identità.
L’hermenéus è dunque colui che rende possibile la comprensione dove questa ha un inciampo. Favorisce lo stabilirsi di una relazione altrimenti impossibile. In questo modo rende comprensibile ciò che non lo è, dà senso al nostro stare dinanzi gli altri.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.