“Deus semper maior”, scriveva sant’Agostino: qualunque cosa si dica o si pensi di Dio, essa è sempre e comunque insufficiente. Qualcosa di simile si può dire dell’anima, termine che l’ubriacatura sessantottina ha intaccato sin dentro le pieghe del cattolicesimo contemporaneo – mai, però, nei suoi dogmi –, che, peraltro, ritorna come una domanda potente e intransigente dal confronto con le grandi culture asiatiche e col fascino che esse esercitano sull’Occidente consumista. L’anima, mistero eterno. L’anima, che è “così completamente una con Dio che nessuno dei due può essere compreso senza l’altro”. L’anima che “nella sua parte più elevata e pura, non ha niente a che fare con il tempo”, cioè confina con l’eterno, con l’indicibile e l’infinito. Sono espressioni prese dai Sermoni tedeschi di Eckhart von Hochheim (1260-1328), più noto come Meister Eckhart, “maestro”, di vita e di insegnamento, come veniva definito ai suoi tempi. Sono espressioni che tentano di dire quel che non si può dire, perché il mistero è ciò che è sempre oltre, benché anche nel più rigoroso apofatismo la parola sia, poi, inevitabile.
Contemporaneo di Dante Alighieri e, come lui, colpito a pochissimo tempo dalla propria morte dalla censura di papa Giovanni XXII riguardo ad alcune sue tesi, Eckhart ha lasciato il segno ben oltre i confini ideali della cristianità: è stato letto e riletto, reinterpretato nelle direzioni più improbabili, sino a Hegel e persino Rosenberg, il mostruoso teorico del nazionalsocialismo più violentemente anticristiano. Meister Eckhart non ha mai smesso di affascinare il pensiero occidentale, ma, ormai, da quasi mezzo secolo si è tornati a leggerlo in una prospettiva filologica più solida, scoprendo, tra l’altro, in lui uno dei ponti più significativi verso le spiritualità orientali.
Eckhart è stato anzitutto un credente, e non è una banalità sottolinearlo. Così, l’unica autentica prospettiva in cui interpretarlo è quella che colloca tutta la sua opera a pieno titolo nella grande tradizione medievale della teologia come esegesi pia e orante della Scrittura. Ce lo ricorda con forza e con rigore un saggio recentissimo di Francesco Roat: Nulla volere, sapere, avere. I sermoni di Meister Eckhart. Introduzione di Marco Vannini (Le Lettere, Firenze 2022).
L’autore, già curatore di un pregevole studio sull’opera mistica e poetica di Angelo Silesio, ci ricorda, col garbo di studioso serio e discreto che sempre traspare tra le sue righe, che egli fu anzitutto un “credente” e ci accompagna nella comprensione dei suoi Sermoni tedeschi. Si tratta delle prediche tenute da Eckhart in lingua volgare – dunque le più spontanee e meno accademiche –, lavorando sull’edizione critica in medio-alto tedesco e sempre confrontandosi con le opere latine, legate alla sua attività di insegnamento universitario, soprattutto nei commenti biblici.
È una predicazione che riesce a parlarci ancor oggi, scuotendo gli animi, o meglio, l’anima, sin nel suo misterioso e inaccessibile fondamento e dentro la quale Roat ci guida con perizia. Eckhart, tra l’altro, è considerato uno degli iniziatori del lessico filosofico-teologico in lingua tedesca, un po’ come il suo contemporaneo Dante Alighieri lo è per l’italiano. Il fondo-fondamento (in tedesco: Grund) dell’anima è una metafora concretissima che, proprio come tale, riesce ad assumere un valore conoscitivo straordinario. Il “fondo” non è in basso, ma in alto – per quel che valgono le “dimensioni” – là, dove l’anima sfiora il Divino e brucia del suo desiderio. Allora si capisce perché anche il teologo-mistico, per cui la parola non basta mai quando si parla del Divino, deve, per amore, tentare di dire e, appunto, di scuotere, far vibrare l’anima, così che liberi posto nel “fondo” di sé al suo unico fondamento.
Roat ci introduce a questi concetti, riprendendo all’inizio del suo saggio il Sermone 1, dove Eckhart commenta l’episodio evangelico della cacciata dei mercanti dal Tempio e spiega che il “tempio” in cui Dio intende regnare è “l’anima dell’uomo”, con un chiaro riferimento alla Prima e alla Seconda Lettera ai Corinzi (“Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” e “Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente”). L’anima è divina, è quel “che lui [Dio] ha formato e creato davvero simile a sé stesso”. Pensare oltre il pensiero significa allora fare spazio e lasciarsi andare a questo “fondo”.
Anche l’affermazione, ricorrente nei Sermoni tedeschi, che Dio è al di là dell’essere e del pensiero, ed è, anzi, al di là delle nostre idee di Dio, dei limiti in cui lo pensiamo e desideriamo e da cui occorre liberarsi, non è che un appello al destino dell’anima, chiamata ad andare oltre ogni misura umana. “Deus semper maior”, appunto, con sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino, i due “maestri” più citati dal domenicano Eckhart. Anche per questo ogni parola è e resta inadeguata. E questo è più che un messaggio: è un invito che ha molto da dire anche a noi, anche oggi.
E, forse, osserviamo noi, anche la ritrattazione di Eckhart, il suo sottomettersi al giudizio ultimo del papa sulle sue tesi (già prima della condanna ufficiale, e frettolosa, di alcune sue proposizioni), si spiega con la chiara percezione del limite di ogni pensiero, non certo con dei timori: il Meister sapeva benissimo di essere ormai “sub limine mortis”, tanto che la “ritrattazione” arrivò ben prima del pronunciamento avignonese. Eckhart, infatti, contrariamente a quel che spesso si ripete, non fu mai condannato come eretico (lo furono alcune sue proposizioni decontestualizzate). A buon diritto, quindi, scrivendo di lui nella sua trilogia Hans Urs von Balthasar osserva che egli condivide il destino di molti grandi della storia del pensiero cristiano, a partire da Origene, che si sono visti condannare alcune proprie tesi, ma hanno segnato la tradizione teologica successiva.
Il punto, infatti, è un altro: esperito tutto quello che era umanamente possibile per dimostrare l’ortodossia delle sue tesi, Eckhart si lasciò guidare dalla chiara percezione dell’inadeguatezza di ogni parola, anche della propria. Gelassenheit, “abbandono”, è un termine eckhartiano che sarebbe stato ripreso anche da Heidegger. Eckhart, cioè, ci insegna sì ad andare oltre ogni dogmatismo (come sottolinea Marco Vannini nella prefazione al volume), ma non certo a prescindere dai dogmi, nel senso più nobile di verità che non ci appartengono, che restano colme di mistero e che segnano la via da percorrere, per evitare di uscire di strada.
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