Inquadriamo la situazione pensionistica delle lavoratrici partendo dalla Legge di bilancio e dalla Relazione tecnica che l’accompagna (pag 101) fermandoci sull’Opzione donna e registriamo la prima buca con acqua. Da quando è stata introdotta nel 2004 con l’obiettivo mancato di attutire l’impatto del percorso di unificazione dei requisiti del pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici a quelli dei lavoratori, è stato un ripetersi di mazzate. Il risultato è che le lavoratrici che hanno usufruito di Opzione donna sono poche migliaia (21mila nel 2019 e 14mila nel 2020).
Le donne non sono in condizione di avvalersi del trattamento anticipato (come gli uomini delle coorti del baby boom) perché la loro storia lavorativa non consente di conseguire le anzianità di servizio richieste per anticipare la pensione e da quando è stato introdotto per tutti il calcolo contributivo pro rata aumenta la quota contributiva a scapito di quella retributiva. Se si vuole veramente sostenere il lavoro delle donne e ripianare le contribuzioni che mancano dai periodi di assenza per il lavoro di cura è necessario, senza ipocrisie, allargare l’utilizzo dei Fondi bilaterali come forma di sostegno ai versamenti contributivi figurativi per colei o meglio ancora colui che svolge un ruolo fondamentale nel welfare familiare senza gravare eccessivamente sull’azienda, anche ricorrendo ai crediti di imposta per l’impresa che adotta questa scelta per congedi ricorrenti.
L’altra buca con acqua è piena di numeri sui fondi pensione integrativi che rileviamo, in tristissima continuità, dai dati rispetto al risparmio previdenziale. I numeri tratti dall’ultima Relazione annuale Covip parlano chiaro: su 8,4 milioni di iscritti alla previdenza complementare alla fine del 2021 gli uomini erano il 61,7% e le donne il 38,3%. La proporzione tra i generi si mantiene simile nelle diverse fasce d’età, con eccezione della classe che raggruppa iscritti con meno di 19 anni, formata soprattutto da familiari a carico, nella quale le donne toccano quota 45,2%, mentre si fa di nuovo piuttosto sbilanciata se si guarda all’interno delle diverse tipologie di fondi.
Con un “misero” 27%, le donne risultano particolarmente sottorappresentate nei fondi negoziali. E la mancanza di carriere con contributi adeguati ovviamente incide su Opzione Donna, che consente alle lavoratrici di lasciare in anticipo il mondo del lavoro a una precisa condizione, penalizzante per l’importo della futura rendita, vale a dire l’intero ricalcolo della pensione con il metodo contributivo (che arriva a decurtare fino al 30% dell’assegno) che allontana per questioni ovvie di sopravvivenza la scelta di crearsi un fondo di pensione complementare. E per di più con la soglia anagrafica dell’uscita anticipata per tutte le lavoratrici modulata sulla base del numero dei figli: a 58 anni con due o più, a 59 con uno solo e a 60 senza “prole”. Quindi, la platea si restringe a circa 2.900 donne.
Possono andare in pensione anticipatamente le caregiver familiari che «assistono, al momento della richiesta e da almeno sei mesi, il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità», «un parente o un affine di secondo grado convivente, qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 60 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti, siano deceduti o mancanti». Stesso discorso per le invalide civili con una riduzione della capacità lavorativa superiore o uguale al 74% e per le lavoratrici licenziate o dipendenti di imprese per le quali è attivo un tavolo di crisi aziendale. Di male in peggio.
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