Chi scrive ha ricevuto mail di critica all’articolo pubblicato la settimana scorsa che invocava un’alleanza più strutturata delle democrazie – come una delle componenti della riparazione del capitalismo democratico – con lo scopo di rafforzarle e rendere più potente la “pressione democratizzante” sul resto del pianeta. Le critiche, in sintesi, si sono focalizzate sul rischio che tale pressione aumenti la possibilità di conflitti con i regimi autoritari, preferendo la pace al posto della democratizzazione.
Certamente questo rischio c’è, ma i pacifisti dovrebbero valutare che è molto maggiore quello portato dall’esistenza di regimi autoritari. Lista: a) la sostituzione delle élite nelle nazioni non democratiche avviene attraverso conflitti tra diverse cordate che comportano instabilità del sistema mentre nelle nazioni democratiche la sostituzione stessa è gestita da processi elettorali che, anche se turbolenti, producono stabilità grazie all’architettura istituzionale; b) un regime autoritario tende a esportare aggressività per compensare con nazionalismo, spesso lirizzato, una qualche crisi interna, come si può osservare nei comportamenti di Cina e Corea del Nord; c) nelle democrazie la varietà di opinioni impedisce azioni azzardate mentre nei regimi autoritari il dittatore ha meno limiti, per esempio Putin. Da un lato, il modello democratico non impedisce tentativi che appaiono imperiali con impiego della forza, ma tali tentativi stessi vanno classificati come reazione a una minaccia avveratasi o incombente. Mentre le azioni di Cina, Russia, Iran e altre dittature vanno classificate come finalizzate all’ampliamento della sfera di influenza. Ovviamente tale classificazione non può essere netta: negli anni 30 il regime militare nipponico percepì una pressione soffocante da parte degli Stati Uniti e giustificò così l’attacco a Pearl Harbour; nel 1941, Hitler giustificò la guerra con motivi rivendicativi di nazione ferita così come Putin in relazione all’azione contro l’Ucraina e Xi Jinping contro Taiwan. Questione certamente complessa, ma semplificabile come ipotesi molto corroborata che se queste nazioni fossero state o fossero democratiche, la guerra sarebbe stata e sarebbe molto meno probabile. Pertanto la sola presenza di regimi autoritari genera un alto rischio di guerra.
Sul piano economico, la democratizzazione di nazioni povere viene valutata da molti studiosi come contraria allo sviluppo perché il povero che vota vuole soldi subito e non investimenti modernizzanti. Tale pensiero ha trovato spazio nella carta dell’Onu che definisce l’inviolabilità della sovranità delle nazioni, ma non la spinta per la loro progressiva democratizzazione, favorendo così la contraddizione tra democrazia e pace. Ora questo impianto è obsoleto e irrealistico. Infatti, per inciso, è in contraddizione con l’evoluzione dei diritti umani e dell’uomo che implicitamente toglie il diritto alla sovranità ai regimi che non rispettano i diritti fondamentali ed esistenziali degli individui.
Anche il capitalismo democratico ha problemi nel diventare di massa? Certo, ma per problemi di armonizzazione tra libertà e redistribuzione assistenziale, non per negazione a priori della libertà politica. Vuol dire che i modelli delle nazioni democratiche sono riparabili, quelli delle nazioni autoritarie no, a meno che non comincino un percorso di democratizzazione. Tale percorso necessita di una grande alleanza e mercato delle democrazie che possa sostenerlo e quindi premiare con fatti concreti, come libertà, ricchezza e protezione, gli individui che si mobilitano per scardinare dall’interno i regimi autoritari. Nonché dissuadere con deterrenza di superiorità i “colpi dello scorpione” dei regimi cedenti.
La democratizzazione del pianeta va calibrata per evitare guerre, ma la paura di conflitti non deve indebolire la missione democratizzante proprio per ottenere un futuro di pace.
Cari pacifisti, siete sul lato sbagliato della storia e della morale.
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