La morte sul palco di una rockstar rappresenta nell’immaginario collettivo la massima espressione, il compimento di una vita fatta di eccessi. Eppure sono pochissimi gli artisti che hanno vissuto gli ultimi istanti terreni on stage, molti di più sono quelli che hanno perso la vita in comuni incidenti o per via di mali incurabili. Tuttavia l’abuso di droghe e alcol e, nel complesso, una vita sregolata spinta all’estremo, sono le principali cause di morte nel mondo della musica. Molto poco rock’n’roll è invece la depressione che può portare al suicidio e che spesso colpisce i soggetti con una sensibilità e una fragilità superiori alla media. In questa categoria di persone sono purtroppo tanti, troppi e sempre di più i musicisti che non reggono il peso del successo o dell’insuccesso e si tolgono la vita perché non riescono a mantenere aperto uno spiraglio per mantenere viva la speranza.
Per quanto talvolta sia sottile la linea di demarcazione tra una morte “voluta” e una morte “indotta”, a colmare questo gap letterario ci ha pensato Paolo Vites, giornalista e scrittore musicale, con “Rock’n’roll suicide – Il lato oscuro del Rock” (Caissa Italia). Il libro non ha la pretesa di dare soluzioni ad un tema enorme e spesso dimenticato, ma ha certamente il coraggio e il merito di accendere un faro sugli effetti della malattia mentale e della necessità di intervenire prontamente con un opportuno sostegno psicologico e medico laddove possibile. La depressione è la malattia dei giorni nostri, c’è un lato oscuro così drammaticamente umano e tragicamente attuale che miete vittime nel silenzio e nell’indifferenza generale.
Perché Luigi Tenco si è sparato? Perché Nick Drake ha ingerito una dose extra di pillole? Perché Elliott Smith si è accoltellato? Perché Chris Cornell si è impiccato? L’autore, prendendo in rassegna diciotto artisti, non solo del mondo del rock, indaga sulle ragioni che li hanno spinti all’estremo gesto appurando che il fattore comune in molti casi è riconducibile ad un’infanzia sofferta e traumatica. Paradossalmente invece è proprio il palco la cosiddetta confort zone dell’artista, il luogo più sicuro dove rifugiarsi. Ma quando la musica finisce, l’adrenalina svanisce e calano i riflettori, la rockstar rimane da sola con i propri demoni e a nulla serve l’affetto dei cari e gli attestati di stima dei fan. Come? Quella del rocker non è la vita più bella che ci possa essere al mondo? Evidentemente il successo, le donne, i soldi non bastano a sostenere la domanda, a sorreggere quel grido di aiuto che diventa improvvisamente disperato nel momento in cui si viene lasciati soli, abbandonati ad un destino di cui non si intravede più alcun senso positivo. E allora si ripiomba nel buco nero perché il “Cominciare ad ogni istante”, giorno dopo giorno, diventa ripetitivo, pesante e insostenibile da affrontare.
Paolo Vites ha una capacità unica nel raccontare, da cronista e soprattutto da appassionato, le varie sfaccettature del mondo rock tanto da rendere le sue letture molto coinvolgenti. Lo stesso vale per Rock’n’Roll Suicide anche se non è un libro che si riesce a leggere tutto d’un fiato, non è un giallo dove si vuole arrivare al più presto alla pagina Fine. Non si può passare da una morte all’altra come se niente fosse. La lettura necessita di ripetuti momenti di riflessione, di intervalli da dedicare alla bellezza, da destinare all’ascolto di quelle canzoni che quegli artisti immensi ci hanno lasciato in dono. Kurt Cobain, per esempio, ritratto nell’iconica immagine di copertina, è forse il primo che, con il suo gesto estremo, ha sconvolto il pubblico mondiale. Una volta raggiunto il successo mainstream ha distrutto tutto: le dipendenze e l’eroina lo hanno portato al tragico epilogo. Proprio lui che con la sua arte straordinaria ha saputo trasformare in musica i sogni spezzati e il malessere di una generazione. “Se solo fosse riuscito a vedere la gioia che la sua musica donava al mondo, forse ne avrebbe trovata un po’ anche per sé” ricorda così Dave Grohl l’amico e compagno dei Nirvana.
Un ulteriore invito all’ascolto è proposto dall’autore che raccoglie, a conclusione del libro, 25 brani che trattano di depressione e suicidio. È curioso ritrovare tra gli autori dei musicisti insospettabili come Vasco, i Police, i Green Day e Bob Dylan e di riscoprire testi, magari ascoltati centinaia di volte, senza aver mai dato il giusto peso alle parole.
A fronte dei tanti suicidi vale la pena di ricordare che sono molti di più gli artisti testimonianza vivente del potere salvifico delle canzoni e che, grazie alla musica, hanno saputo combattere il male e hanno trovato un senso e una collocazione nel mondo. Tra i cantanti che hanno maturato la consapevolezza che la propria musica possa essere uno strumento di bellezza e di ispirazione per altre persone c’è sicuramente Marie Gauthier, cantautrice di Nashville, che nel suo libro Saved by a Song racconta proprio come l’arte dello scrivere le abbia salvato la vita: “Le miei canzoni, io che condivido la mia vita, mi hanno aiutato a trovare un senso nel dolore. Ho iniziato a vedere che pure le cose peggiori che mi accadevano potevano essere di aiuto per gli altri”. Tra gli altri da ricordare Jeff Tweedy, leader dei Wilco, che dopo un percorso doloroso è giunto ad una presa di coscienza del suo ruolo da autore: “Credo che sia questo il fine ultimo di ogni opera d’arte: ispirare qualcun altro a usare l’arte per salvarsi. L’atto creativo crea altri creatori”.
Il rock uccide, il rock salva. Un suggerimento all’editore: sarebbe bello se dopo questo viaggio lungo il lato oscuro del rock fosse proprio Vites a guidarci nel fantastico mondo dei “Saved by Rock’n’Roll”.
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