“Oh babbo mio! Se tu fossi qui! E non ebbe fiato per dire altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”. “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi inizialmente sarebbe dovuto finire così. Nessun lieto fine, ma una nera impiccagione del burattino alla Grande Quercia da parte del gatto e la volpe. Ora, in realtà lo scrittore scelse inizialmente questo finale solo perché era stanco di continuare a scrivere le avventure del burattino pubblicate periodicamente in episodi illustrati sul Giornale per i bambini di Ferdinando Martini. Ma con questo precedente, chi ha visto ‘Pinocchio’ di Guillermo del Toro sulla piattaforma Netflix converrà che non si può proprio parlare di rivisitazione dark della fiaba, ma forse grigia. Perché Guillermo del Toro per quanto faccia inizialmente morire un personaggio che nella fiaba è inesistente, in realtà non ha lo stesso coraggio di Carlo Collodi di far morire Lucignolo tra le braccia di Pinocchio o di mostrare la vera cattiveria di Mangiafuoco e del gatto e la volpe. Al posto di un’isola dei balocchi dove i bambini diventano dolorosamente asini, c’è una guerra con armi che sparano inchiostro. – Magari fosse così sulle terre ucraine e iraniane! – Guerra che a mio parere mai dovrebbe essere mostrata a dei bambini nemmeno nel mondo della fantasia. La morte iniziale del figlio di Geppetto sembra quasi allora un pretesto per nascondere questo coraggio mancato. O semplicemente è un lutto di un’altra storia, non quella del burattino.
Pinocchio di Guillermo del Toro è una rivisitazione falsa condita di un sentimentalismo grigio e lascia al fine una tale inquietudine addosso, da suscitare finalmente un’impellente voglia di leggere la fiaba augurandosi che abbia in sé una più luminosa speranza. Propriamente indicata nel periodo natalizio giunto ora al termine durante il quale è uscito il live-action, si scopre così che Carlo Collodi non poté concludere con un finale nero le avventure di Pinocchio perché in redazione arrivarono così tante lettere di protesta da parte dei piccoli lettori che dovette riacciuffare la storia. E tutto ripartì da un “Can-barbone”, una “bella Bambina dai capelli turchesi” e una “carrozza imbottita di penne di canarino, panna montata e crema di savoiardi”. A dir poco semplice e delizioso.
Il film diretto da Guillermo del Toro insieme a Mark Gustafson, con un cast eccezionale – da Ewan McGregor ( il grillo) a Cate Blanchett (Spazzatura)- , e una bellissima colonna sonora curata da Alexandre Desplat, è senza precedenti per la sua indiscutibile unicità dettata dall’unione dell’estetica live-action e la stop-motion artigianale – una tecnica che usa oggetti inanimati continuamente spostati e fotografati. Tutto viene costruito e nessun particolare è lasciato al caso. Dal bottone della giacca di una contadina, alle unghie sporche di Geppetto. Dai bassorilievi agli affreschi del 1500. Per capire basti guardare l’imperdibile speciale dietro le quinte “Pinocchio di Guillermo del Toro. Cinema scolpito a mano”, sempre sulla piattaforma Netflix.
Però questo ciclopico lavoro è in contraddizione, una stupefacente contraddizione, con l’idea che Guillermo del Toro vuole lasciare del suo Pinocchio – onesto almeno nell’usare il possessivo – che rimane un burattino. L’idea del regista spiegata nel dietro le quinte, è chiara: “Di norma, Pinocchio parla di ciò che il burattino impara per poi diventare buono e quindi un bambino vero. Il nostro Pinocchio non è così. (…) Non cambia ma può far molto di più di chi ha di fianco”. Solo che questa è una bugia. Pinocchio di Carlo Collodi non è un banale burattino che impara qualcosa e poi diventa buono come viene appreso magari dal cartone Disney. Fin dall’inizio è amabile e ha un “cuore eccellente”.
Pinocchio sa bene, grazie al papà, che “a fare una buona azione non si scapita mai”. Tanto che è con un cuore di legno che aiuta tanti dei personaggi che incontra come il cane Alidoro e il tonno. Ed è per una sana osservazione e ingegno, e sempre con un cuore di legno, che salva sé e il babbo dagli interstizi del pescecane. Il cambiamento di Pinocchio è semplicemente quello di capire di non essere un vagabondo o un reietto, e che per essere libero deve impegnarsi e avere qualcosa e qualcuno da amare. È ad esempio per un lavoro ciclopico di 15 anni per fare questo live-action che si è vivi, che si riceve in dono la carne. Un lavoro e un amore che cambiano e perfezionano solo per essere più se stessi, non perfetti. Quel “ragazzino perbene” – l’aggettivo un po’ fastidioso – presente nel finale della fiaba è semplicemente da ricollocare al suo contesto – in quel periodo (1881) si stava affermando la borghesia – non al grado di moralità.
C’è un dolore che tocca profondamente Guillermo del Toro e lo trasmette voracemente e con spunti commoventi allo spettatore. – Quelle ingenue domande di Pinocchio al grillo “Come si fa a perdere un’intera persona?”, “Cos’è il peso?”, sono travolgenti – Ma c’è anche un dolore, forse un rapporto irrisolto con il padre, che lo appanna e per cui non capisce che il suo Pinocchio è un contrattacco a un Pinocchio che non esiste. Belli gli intenti del grillo che cambiano. Interessante la denuncia del mondo clerico-fascista, meno che sia sempre il fascismo l’ideologia messa in discussione. Un po’ conformista. Provocatoriamente spiazzante la domanda di Pinocchio che chiede al babbo perché le persone amano il Crocifisso e non lui. Ma per quel dolore che appanna Guillermo del Toro, non c’è avventura. Non ci sono le avventure di Pinocchio. Non ci sono tutti i meravigliosi personaggi che il burattino incontra nella fiaba e non ci sono quegli sbagli che per qualcuno sono davvero fatali. Non c’è vera e propria luce e vera e propria ombra. Non c’è nero e colore. Tutto è solo maledettamente grigio. C’è poi un Geppetto sempre al collo per cui ad un certo punto manca quasi l’aria. Al contrario nella fiaba si rincontrano solo alla fine.
Inoltre nel Pinocchio di Guillermo del Toro il motore di tutto è la morte, nella fiaba è l’amore. Che il dolore non faccia cambiare e che la morte possa salvare sono poi le più grandi bugie di questo live-action. Non c’è isola dei balocchi o guerra, dolore, morte, che non porti un cambiamento. Basti guardare gli occhi dei bambini ucraini o russi. O gli occhi di quei genitori che perdono i figli per vizi e debolezze. Ma soprattutto è solo l’amore, e non la morte, l’unico motore a poter salvare e a dare in dono la carne. Pinocchio per salvare il papà non muore, ma semplicemente impara ad amarlo. Le avventure lo aiutano a capire come farlo, come ricambiare il grande amore del padre che vende la propria giacca per farlo studiare. Che piange perché lo ama non per cambiarlo.
“Quel che accade, accade. E infine, ce ne andiamo”. Con queste parole e Pinocchio che parte da solo per mete ignote, si conclude il film. Solo io ho avuto qualche attimo di soffocamento ostruttivo? Ho letto che qualcuno finalmente aspettava un finale così. Nebuloso ma più “realista”. Non so a voi ma a me una fiaba che in quel che accade, anche la morte, abbia in sé una più luminosa speranza, va più che bene. Perché in fondo la vita non è più simile a questo intreccio tra la drammaticità della morte e del dolore, e la speranza dell’amore che non fa più vagabondare ma trovare una strada e avvicinare a poco a poco a quell’ingarbugliato ma luminoso mistero che è dentro e fuori le cose? Ma forse questo lo sanno bene solo i piccoli lettori.