Quanto sta accadendo in Brasile da domenica pomeriggio merita, a mio modo di vedere, un’analisi più approfondita di un mero giudizio su di un atto che, visto nella sua singolarità, è certamente deprecabile.
Premetto di non essere un simpatizzante né di Lula, né di Bolsonaro, perché ambedue mi sembrano rappresentare un fenomeno che sta tentando, in tutto il mondo occidentale, se non di distruggere il concetto di democrazia almeno di metterlo pericolosamente al servizio di elementi che, dopo elezioni più o meno regolari (leggasi Venezuela, Nicaragua, Bolivia, ecc., tanto per fare degli esempi latinoamericani), occupano il potere per instaurare poi dei veri e propri regimi che non tengono minimamente conto dell’opposizione e spesso fanno di tutto per eliminarla.
Facendo una fotografia generale del Brasile dopo le elezioni bisogna premettere che se anche Lula avesse stravinto nei seggi, quindi senza i sospetti non ancora provati (manca la relazione della Commissione di vigilanza sui risultati) di brogli vari, veri o presunti che siano, il risultato delle elezioni per il Parlamento brasiliano aveva sancito che la maggioranza dei seggi è ancora nelle mani del PL (di Bolsonaro) e quindi Lula avrebbe non dico le mani legate, ma comunque un potere da condividere (per lo meno) con il partito del suo predecessore.
Analizzando più profondamente le cose, c’è un altro particolare che colpisce fin dallo svolgimento delle primarie: il sostanziale controllo, pure mediatico, della campagna elettorale svolto da Alexandre De Moraes, ministro del Tribunale Supremo del Brasile (TSB), la persona più potente, politicamente, dell’intero Paese. Uno che ha sempre favorito il PT di Lula anche con decisioni apertamente discutibili perfino dopo le elezioni: in pratica, senza aver valutato (lo ripetiamo) la relazione della Commissione di vigilanza, ha di fatto annunciato la regolarità del voto. E anche in queste ore ha determinato la rimozione dei campi antistanti le caserme sia nei vari Stati che nel Distretto federale. La decisione stabilisce inoltre che tutti i partecipanti devono essere arrestati in flagrante delitto. Tutto questa operazione deve essere condotta con il supporto della Polizia federale se necessario.
Una decisione del genere, che si inquadra in una repressione totale, potrebbe costituire l’accensione della miccia in grado di far esplodere totalmente la situazione a livelli imprevedibili e pericolosi: ricordiamo che il Brasile è un Paese politicamente spaccato in due parti opposte e che, almeno fino a questo momento, la decisione ha provocato l’estendersi delle proteste in altri Stati del Paese.
Ovviamente la teoria del colpo di Stato ha fatto il giro del mondo e raccolto la pronta risposta di gran parte del mondo occidentale, com’era da attendersi, ma la domanda che viene spontanea è la seguente: come si può provocare una reazione del genere se solo un centinaio di persone (ma sarebbe meglio chiamarli facinorosi) sono entrate nella grande massa della manifestazione che però è tranquillamente rimasta fuori dal recinto del Palazzo presidenziale? E come mai ora si grida, lo ripetiamo, al colpo di Stato quando manifestazioni uguali, sempre contro il Palazzo della presidenza, con tanto di violenze (documentate da diversi video) ma organizzate dal PT di Lula sia nel 2017 che nel 2019 sono state catalogate come atti di protesta democratica?
Come accaduto già in Venezuela, Nicaragua e Bolivia ciò pare essere un pretesto non solo per incriminare un avversario politico (discutibilissimo, lo ripeto), ma anche per inasprire successivamente il potere, in modo da provocare cambi politici tali da azzerare e minimizzare l’opposizione.
L’abbiamo già scritto varie volte. Lula non è quel santo che si vuol fare apparire: è stato condannato per corruzione e la pena gli è stata cancellata proprio da De Moraes perché il processo doveva essere celebrato a Brasilia e non a Couritiba, visti i suoi precedenti presidenziali. Cosa che gli ha permesso di partecipare alle elezioni altrimenti per lui bandite per i processi affrontati.
Mentre scriviamo si apprende che il Governatore del Distretto federale Ibanez (del partito di Bolsonaro) è stato sospeso per 90 giorni e che oggi ci dovrebbe essere una riunione di Lula con tutti i Governatori e Prefetti del Paese. Vediamo quanti presenzieranno all’evento, visto che molti di loro hanno saltato la cerimonia di insediamento.
C’è un particolare curioso e anche abbastanza comico: in una dichiarazione sugli eventi Lula Da Silva li ha catalogati anti-democratici “stile fascista, nazista e stalinista”. A questo punto si è interrotto e ha dichiarato: “No, stalinista no!”.
Dal canto suo Bolsonaro (che si trova negli Stati Uniti) ha dichiarato che le manifestazioni che si sono svolte a Brasilia erano pacifiche e che solo una minima parte dei partecipanti si sono abbandonati ad atti di violenza, ritenendo ingiustificata e a sua volta “antidemocratica” la reazione di Lula agli eventi.
È quindi abbastanza chiaro che la situazione, nel suo insieme, è caotica e può portare, se affrontata come si sta facendo, a una radicalizzazione degli opposti estremismi dalle conseguenze pericolose. È quindi auspicabile trovare una pacificazione immediata che riporti il Brasile a una vera democrazia, magari attraverso un incontro tra le parti. Difficile ma non impossibile che ciò si verifichi, anche perché la repressione condurrebbe il Paese in un vicolo di violenze inarrestabili.
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