La filiera del largo consumo non attraversa un momento facile. Covid, tensioni geopolitiche, guerra in Ucraina, carenza di materie prime, colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento hanno determinato forti incrementi dei costi di produzione, che solo in parte sono rientrati. E solo in parte sono stati trasferiti al consumatore. Molte industrie fornitrici, nei mesi scorsi, hanno rinunciato a parte della loro marginalità, in misura diversa e per quanto è stato possibile, per non trasferire a valle, al consumo, gli extracosti che hanno sostenuto.
È importante sottolineare che, in un’economia di mercato, è prerogativa di ogni impresa determinare in totale autonomia – e nel fondamentale rispetto delle normative antitrust – se e come modificare le proprie politiche di marketing e commerciali. Quindi decidere se alzare, abbassare o mantenere stabili i suoi prezzi di cessione ai canali distributivi, le scelte non sono legate solo all’andamento dei costi energetici, logistici e delle materie prime: in gioco entrano altri fattori, per esempio gli investimenti in corso o pianificati da tempo per mantenere elevata la competitività. Si va dagli interventi per migliorare la sostenibilità ambientale dell’attività produttiva alla ricerca scientifica che sta alla base della progettazione di nuovi prodotti, dal rinnovamento degli impianti produttivi alla creazione di nuove opportunità occupazionali.
Di questi fattori imprenditori e manager non possono non tenere conto se vogliono mantenere in salute i conti economici e garantire la fondamentale continuità dell’attività delle loro aziende (cui sono strettamente legati, tra l’altro, mantenimento dell’occupazione, gettito fiscale allo Stato, competitività del Paese sui mercati internazionali). Un obiettivo reso oggi più complesso da raggiungere se si considera l’impennata del costo del denaro decisa dalla Banca centrale europea per contenere l’escalation inflattiva, che sta rendendo più oneroso il ricorso ai finanziamenti.
La Cgia di Mestre stima che il restringimento della politica monetaria determinerà un aggravio dei costi sui prestiti alle imprese pari a 15 miliardi di euro, effetto degli aumenti dei tassi attuati nel 2022 cui si sommeranno quelli annunciati per l’anno in corso. In questo quadro si rivelano particolarmente vulnerabili e a rischio di espulsione dal mercato, gli operatori più deboli, in genere medio-piccoli, poco patrimonializzati (una costante nelle pmi) e più vulnerabili agli shock sistemici.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.