Il Mes è tornato di moda, ma la discussione, a differenza di altre fasi, avviene in assenza di una crisi del debito europeo visibile. Lo spread è in linea con i valori di maggio 2022 e nelle ultime settimane è sceso. I minimi di giugno 2020-dicembre 2021 sono lontani, ma siamo comunque allineati ai livelli successivi all’invasione dell’Ucraina quando a palazzo Chigi c’era Mario Draghi. La discussione sui benefici o i rischi del Mes avviene in un contesto in cui una crisi dell’euro o del debito europeo sembra ipotetica se non remota. Da dodici mesi si narra l’unità dell’Occidente e ancora di più dell’Europa che deve essere coesa per fronteggiare il conflitto con la Russia. Certi sviluppi in questo clima sembrano impensabili.
Gli spread all’interno dell’Europa, le crisi dei debiti, si sono aperti almeno in tre fasi negli ultimi quindici anni. La prima è quella arrivata dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e finita con il “whatever it takes” di Mario Draghi di luglio 2012; la seconda ha avuto vita breve nelle settimane successive allo scoppio della pandemia causata dal Covid; la terza è arrivata dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina, la successiva decisione dell’Europa di imporre sanzioni e la conseguente crisi energetica. In Italia c’è stata un’altra fase, coincisa con i primi mesi del Governo gialloverde a cavallo tra il 2018 e il 2019.
Le crisi dell’euro sono emerse dopo fasi eccezionali e regolarmente rientrate anche se non senza difficoltà. Alcuni Paesi hanno pagato più di altri, hanno dovuto incassare fasi di rallentamento economico più prolungate, ma assorbito lo shock sia a livello di singolo membro che di unione il sistema è continuato.
L’ultimo shock in ordine di tempo, quello ufficialmente partito con l’invasione della Russia in Ucraina, parrebbe essere nella fase del riassorbimento con alcuni Paesi che hanno potuto mettere in campo centinaia di miliardi di euro per difendere imprese e consumatori e altri qualche decina. Tutto, in sostanza, come sempre.
La crisi energetica, invece, non è una fase straordinaria destinata a chiudersi nello spazio di qualche trimestre e si inserisce in un quadro più ampio in cui la globalizzazione, i liberi scambi internazionali di beni e servizi, si chiude in un quadro di aggravamento dei conflitti commerciali, economici e militari e in cui il mondo si divide in pezzi. L’Europa, dopo la crisi, non torna al punto di partenza in un sistema in cui la sua industria presidia alcuni settori e occupa un posto di rilievo negli scambi globali. Quel sistema sembra saltato sia perché l’Europa deve fare i conti con costi energetici saliti molto di più dei suoi concorrenti, sia perché gli scambi commerciali si interrompono e si rimodellano su basi geopolitiche più che economiche.
È come se l’Europa dovesse affrontare una crisi all’anno tutti gli anni invece che una ogni uno o due lustri. Le condizioni esterne sono molto peggiori, sono cambiate per il lungo termine e la possibilità dei singoli Stati di affrontarle sono molto diverse. Alcuni Stati hanno bassi livelli di debito pubblico, altri hanno sistemi energetici più solidi di altri.
Il Mes non è più quello che era due anni fa perché la crisi del modello europeo è strutturale. Se era nato per gestire crisi temporanee occorre chiedersi se può funzionare per risolvere crisi interne all’Europa strutturali o se invece rimane valido come strumento di riequilibrio politico in cui l’unica flessibilità che rimane all’Europa è la competizione interna. Tanto più feroce quanto più sfidanti sono le condizioni esterne.
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