L’accordo in extremis sulle primarie del Pd serve solo a rimandare il vero redde rationem. La forma partito scelta ancora non è chiara. Da un lato le file ai gazebo, alimentate dalla struttura di un partito mai così debole, dall’altro il modello grillino delle code informatiche, fatte da militanti anonimi chiusi in casa e spesso imprevedibili. Per non apparire un partito degli anni 90 si è optato per un voto parzialmente smart. Solo in alcuni casi, solo a certe condizioni e solo in determinate ridotte casistiche si potrà accedere da pc. In pratica solo chi è fisicamente impedito potrà agire come se fossimo nel 2023. Per il resto tutti in fila come come nel 1996.
Non sarà questo compromesso, ovviamente, a schiodare il Pd dal 14%. Il dialogo con larga parte della società italiana si è interrotto e la confusione su come riattivarlo è figlia della mancata chiarezza su chi si vuole raggiungere.
La generazione Z non va al cinema e preferisce le serie sul cellulare, figurarsi se ha voglia di partecipare in massa ad un evento di fine novecento. Non ci saranno, per intenderci, i neo-maggiorenni. Così come mancherà un elettorato più di area ma meno propenso alle liturgie defatiganti.
Non ci sarà un pezzo importante del ceto medio, che ancora non ha capito se il Pd vuole anche loro tra gli elettori o se se cerca il consenso delle periferie. Che dal canto loro sono impegnate a sopravvive alla crisi e pensano ancora di avere problemi che Bonaccini o la Schelin fanno fatica a capire.
E quelli che ci saranno verranno trascinati dalla tradizione o dall’appartenenza ad un pezzo di apparato locale. Non saranno, per intenderci, primarie di popolo. Perché il popolo oggi parla, discute e si esprime sulla rete e online molto di più che nelle sezioni. E queste mancanze faranno scattare tante riflessioni in Cuperlo, che ancora crede ad un partito di sinistra di massa e milita invece in una formazione di minoranza che ha perso 5 punti in quattro mesi nonostante al governo ci sia la compagine più di destra della storia.
Ecco, tutto questo c’entra con il modo di votare alle primarie. Perché aprire tutto, evitare compromessi sulla forma avrebbe significato rinnovarsi per davvero ed accogliere la modernità una volta per tutte. Ma il Pd di oggi è più conservatore della destra nelle pratiche, non ha la forza dirompente della valanga renziana, non è custode di tradizioni come quello dalemiano. È un partito confuso, che non sa bene dove collocarsi, fa fatica a dire come vuole esprimersi e vive degli accordi di retroguardia di pezzi di potentati. Accordi, compromessi, mezze intese, come quella in extremis sul voto.
Ma la modernità non è qualcosa con cui si media. O la si accetta o si è del passato. E la scelta, per ora, sembra chiara. Meglio i cari vecchi riti (che i sacerdoti controllano) che la tumultuosa modernità della realtà che, per dirla alla Bersani, è come una mucca in corridoio. Anche se la ignori è lì pronta a farti sentire che c’è. Ed a dirti che sei nel passato.
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