Alle tre di notte di domenica scorsa i banditi hanno assaltato la canonica della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo a Kafin-Koro, nella regione di Paikoro e diocesi di Minna, in Nigeria. Questa è una notizia ormai vecchia. A tutti noi è rimasto in mente non solo e non tanto che il parroco padre Isaac Achi sia stato ucciso, e neppure che il suo coadiutore padre Collins, mentre tentava di scappare, abbia ricevuto un proiettile nella schiena miracolosamente sopravvivendo. Infatti la notizia dell’assassinio di cristiani in Africa è così banale che non ricordiamo nessun carattere distintivo: sono sassolini nel deserto del nostro arido cuore. Negli ultimi anni in Nigeria, sgozzati o fatti esplodere nelle chiese, ne sono stati uccisi 100mila di cristiani, cattolici o evangelici.
La cosa che ci fa ricordare padre Isaac è il modo del suo martirio: è stato bruciato vivo. Dinanzi a tanta efferatezza si resta sgomenti. Ma proprio la crudeltà – la croce di Cristo non lo è stata di meno – ci segna. Le ragioni di questa ferocia non hanno forse a che fare con l’odio per la fede. Magari sono semplici briganti, o come li ha chiamati il responsabile della polizia nella regione, sono “teppisti”. Il fatto certo è che – dentro la sofferenza devastante di una simile tortura – padre Isaac ha testimoniato insieme all’amico e confratello l’amore puro e semplice, e come la fonte sia Gesù Cristo che consente anche di morire nella pace e nella speranza mentre non c’è speranza.
Questo spiega perché in Africa aumenti il numero dei battezzati nel seno della Chiesa cattolica. Bisogna ricordarsi questo: le fiamme, il corpo trasformato in un blocco di carbone, perdono il loro orrore, diventano particolari che indicano qualcosa di infinitamente più importante.
Il nunzio in Nigeria, l’arcivescovo Antonio Guido Filipazzi, ha spiegato alla Radio Vaticana che ci doveva essere un accanimento personale, diretto proprio contro don Isaac, a muovere la banda (jihadisti? sbandati?). Ha invitato a non generalizzare, la violenza in Nigeria non uccide solo cristiani, la questione attiene allo scarso o nullo valore che si dà all’altro e all’inerzia del governo. Ed ecco che, quasi con pudore, racconta quel che gli ha confidato padre Collins: “Posso, se può servire, raccontare un aspetto edificante, ed è che i due sacerdoti, quando erano già stati feriti e la casa stava per essere data alle fiamme, si sono confessati reciprocamente per prepararsi alla morte. Poi uno è in effetti morto e l’altro per fortuna si sta riprendendo. E quindi, anche nel buio dell’odio e del dolore, c’è questa fede che è più forte della morte. Questo non toglie niente alla gravità e al dolore di questo episodio”.
Immaginiamo questi due preti, hanno capito che saranno uccisi. E nel modo più spaventoso. Uno che fa? Organizzano una difesa estrema con coltelli da cucina, così da liquidare almeno uno dei carnefici? Invece si aprono all’atto di fraternità sacerdotale che è il sacramento della perfetta comunione. L’invidia della gioia, di una letizia inspiegabile, questa è la molla della persecuzione e della conversione.
La libertà religiosa coincide con il diritto degli uomini a poter incontrare persone così. Per questo è il primo dei diritti, per questo è calpestato dal potere. Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) constata in una nota: “…agli occhi dei governi e dei media occidentali, la libertà religiosa sta scivolando verso il basso nelle classifiche dei diritti umani, eclissata da questioni come gender, sessualità e razza”.
P.S. Ottimo allora che il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani intenda invece istituire una figura nuova: un inviato del nostro governo che vigili sulla libertà religiosa e denunci la persecuzione dei cristiani.
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