Con cadenza ormai definita, i dati forniti dal sistema Excelsior documentano mensilmente le difficoltà che le imprese incontrano nel soddisfare le proprie esigenze di manodopera. Con percentuali crescenti registriamo che vi sono figure professionali che hanno basse probabilità di essere trovate e che difficilmente saranno disponibili nel prossimo futuro. Le carenze si sono fin dall’inizio concentrate verso quelle professionalità che richiedono percorsi formativi di carattere scientifico ed economico, percorsi di studio che vedono in Italia una bassa propensione nelle scelte giovanili e ancora di più fra le donne.
La scarsità di offerta si registra, però, anche nelle figure professionali specialistiche per attività manuali. Saldatori come tecnici informatici di sistemi produttivi sono ricercati a colpi di rilanci salariali. Negli ultimi tempi si registra una difficoltà a trovare manodopera anche per lavori manuali che non richiedono nessuna specializzazione. A ciò si aggiunge una mobilità volontaria accentuata che ha fatto parlare di grandi dimissioni.
Indubbiamente la fase pandemica con i vari periodi di lockdown e il lavoro a distanza hanno determinato atteggiamenti diversi nei confronti del lavoro e favorito spostamenti fra settori alla ricerca di condizioni migliori. I dati dell’occupazione ci dicono però che nessuno si è ritirato dal mercato del lavoro. Abbiamo addirittura un tasso di occupazione che è tornato ai massimi storici pre-crisi. Eppure continuiamo a avere un mercato del lavoro che non funziona. Se non si trovano candidati per occupare i posti di lavoro che chiedono alte competenze, oggi dobbiamo prendere atto che sono scarse anche le persone disposte a coprire posti di lavoro che non richiedono alcuna formazione specialistica. Che fare rispetto a una situazione che determina una pessima situazione per imprese e lavoratori?
Paghiamo certamente una subcultura diffusa a 360 gradi che pensa che le risorse economiche siano dei dati fissi. Quindi che bisogni (domanda di beni) e fattori della produzione (lavoro e investimenti) siano costanti. Salari e prezzi non agirebbero nel determinare spostamenti significativi. Da questo abbaglio derivano scelte che hanno penalizzato il sostegno con servizi dedicati alle transizioni delle persone nella vita lavorativa a partire dal primo passaggio fra scuola e lavoro. Manchiamo di servizi di orientamento che indirizzino verso percorsi formativi utili, non è cresciuto il sistema duale scuola-lavoro, non si è voluto costruire un sistema di servizi al lavoro che favorissero i passaggi da settori a bassa produttività verso quelli a maggiore valore aggiunto.
Alle difficoltà di inserimento al lavoro che si sono così create soprattutto per giovani e donne si è risposto solo con politiche di bonus dati alle imprese, divieti e vincoli contrattuali che sono stati ininfluenti quando non peggiorativi verso le cause delle difficoltà. Ritardi storici che si stanno affrontando solo ora e che, se gestiti bene, daranno frutti, ma solo nel medio periodo.
La difficoltà strutturale che vedo alla base del lungo periodo di stasi della produttività, oltre ai ritardi sistemici del Paese, è un mercato del lavoro che ha in sé un freno alla mobilità e che determina blocchi all’entrata e scarsa mobilità orizzontale nella vita lavorativa. La macro particolarità italiana che emerge mi pare sia data da una stratificazione dei settori produttivi che hanno un impatto sul mercato del lavoro determinando effetti maggiori che in altre economie. Mi riferisco al fatto che il nostro sistema produttivo determina quattro grandi blocchi di occupati.
Sui 20 milioni di lavoratori occupati nel Paese abbiamo quattro gruppi pressoché numericamente equivalenti. Sono i lavoratori del settore pubblico da un lato, i lavoratori del settore privato, divisi però fra occupati di medie grandi imprese e quelli delle Pmi, e infine i lavoratori autonomi. Ognuno di questi blocchi ha particolarità che derivano dagli errori storici indicati. Basti pensare alla carenza di medici e infermieri causata da errori di programmazione universitaria. Anche il numero molto alto di lavoratori autonomi nasconde un certo abuso dei contratti di subordinazione di fatto di molte partite Iva. Ma ciò che ha un effetto di sistema con impatto sulla bassa crescita della produttività è soprattutto, a mio parere, la scarsa mobilità che vi è fra i quattro blocchi di occupati. A questa situazione generale va aggiunta la particolare differenziazione territoriale del nostro mercato del lavoro. La distribuzione territoriale degli occupati per blocco di occupazione è lungi dall’essere equilibrata e ciò aumenta l’effetto distorsivo della scarsa mobilità. Se si vuole quindi incidere per un rilancio del lavoro nella nuova fase di sviluppo si deve creare un ecosistema che favorisca la mobilità sul nostro mercato del lavoro.
A fianco delle scelte per sviluppare servizi di orientamento per migliorare il sistema di formazione e istruzione, per sostenere sistemi di formazione professionale anche di livello terziario con il modello duale e i contratti di apprendistato, per costruire e far funzionare un sistema di politiche attive del lavoro occorre mettere mano a interventi di sistema che aumentino la mobilità intersettoriale.
Nel breve periodo si devono compiere scelte per favorire la crescita di settori industriali ad alto valore aggiunto. Gli incrementi di produttività devono contribuire, assieme a politiche fiscali e dei redditi, a incrementi salariali. La diffusione di questa nuova crescita può però estendersi a tutto il sistema economico italiano se viene accompagnata da scelte operative e un sistema di servizi al lavoro che rompano i blocchi del mercato e favoriscano una mobilità dai settori a bassa produttività verso quelli che stanno trainando la crescita.
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