Caro direttore,
da quando insegno nella scuola secondaria di primo grado ho potuto lavorare in diverse realtà (dal Friuli all’Emilia-Romagna) confrontandomi con varie esperienze, modalità organizzative e didattiche.
Ho trovato quindi numerose analogie legate purtroppo ad un certa “sofferenza”: in soli tre anni vediamo bambini e bambine trasformarsi in ragazzi e ragazze, che arrivano con competenze assai diverse, spesso incomplete e sempre più lacunose rispetto alle aspettative, ansiosi inizialmente, poi sempre più impazienti di scegliere la futura destinazione.
Gli insegnanti si trovano a rincorrere programmazioni vastissime con scarso tempo a disposizione per affinare gli strumenti di alcuni (che almeno ne sono dotati) e fornirne di sana pianta a chi ne è sprovvisto (sempre più numerosi).
Un valido aiuto per uscire da questo “marasma” didattico è risultato l’impiego dei Pon (Programma operativo nazionale) sviluppatisi negli ultimi anni, che consentono di utilizzare fondi europei per offrire agli alunni che vi partecipano l’opportunità di migliorare le proprie competenze disciplinari (in base alle specifiche del bando cui si partecipa) ampliando le conoscenze ed abilità con la conseguente instaurazione di relazioni positive al di fuori del contesto classe. Il compenso per gli insegnanti che vi partecipano è adeguato, se si considera che, oltre alle ore di attività con gli studenti, ci sono le ore di progettazione dei vari moduli e delle singole attività.
Quest’anno per la prima volta partecipo a un Pon in qualità sia di insegnante esperto che di tutor. Con una collega di materia abbiamo scelto di dedicarci a un laboratorio di lettura e di scrittura per appassionare i nostri alunni ai vari generi letterari e al contempo fornire strategie per migliorare la competenza linguistica in comprensione e produzione.
Questo ci dà l’opportunità di sperimentare metodologie innovative, pianificare interventi e attività mirate senza il vincolo del voto o del livello da raggiungere. Lavoriamo con gruppi di alunni e non con la classe, confrontandoci sul tipo di proposte da attuare, sugli strumenti e sugli attivatori più adeguati. Lavorare in sinergia ci fa avere un immediato riscontro su ciò che ha funzionato e ciò che invece è da perfezionare, ci permette di osservare i punti di forza, trovare modalità alternative per interessare e motivare gli alunni poco partecipativi.
Sarebbe opportuno poter lavorare così anche nelle ore di lezione “normale” anche solo per singoli argomenti o in certi periodi, ma è davvero poco praticabile in quanto ci mancano le risorse. Lavorare per gruppi con un solo insegnante in classe è impensabile, forse talvolta ci riusciamo quando c’è un insegnante di sostegno, ma anche in questo caso mancano materiali diversificati, aule e spazi adeguati.
Sarebbe opportuno che il ministero conducesse un’approfondita analisi per capire e valorizzare le esigenze che vengono dal “campo”, valutando le reali necessità e le proposte per ridurre la dispersione scolastica o aiutare i più deboli, o, meglio ancora, in quale modo potenziare le strutture scolastiche. In realtà quello che abbiamo visto da parte dell’ente pubblico è il prodigarsi in imbarazzanti ipotesi quali l’insegnante esperto oppure il tutor di ultima generazione, il cui unico effetto è stato quello di far alzare la guardia ai sindacati con conseguenti minacce di scioperi e mobilitazione generale. L’introduzione di questa figura professionale prevederebbe una preparazione in ambito psicologico e pedagogico, frequentando corsi di formazione gratuiti in quanto la spesa sarebbe a carico del ministero. Il tutor sarebbe dunque pagato di più in virtù della maggiore formazione e di un compito ulteriore rispetto ai colleghi, che consisterebbe nel coordinare strategie di personalizzazione dell’insegnamento facendo del recupero e confrontandosi con i team docenti e con le famiglie.
Mi pare un intervento del tutto inutile, dal momento che esiste già da tempo la figura del coordinatore del consiglio di classe, che la formazione l’ha fatta sul campo e che si occupa di quanto sopra descritto.
Le poche risorse a disposizione del comparto scuola vanno utilizzate con parsimonia, stabilizzando e rendendo operative le esperienze positive documentate (anche attraverso Indire). Sarebbe una buona idea promuovere il merito dei dirigenti che attuano scelte in tal senso, che investono sui corsi di aggiornamento e sulle sperimentazioni per rendere l’offerta della scuola più adeguata ai bisogni di tutti gli studenti, di quelli bravi come di quelli in difficoltà. Non sarà certo il tutor, sopra descritto, pagato più dei colleghi insegnanti a rispondere a queste necessità. Quello che ci vuole è un serio e programmatico piano di innovazione che porti gli insegnanti ad avere un’idea condivisa a livello di dipartimenti (lettere, scientifico, educazioni).
Ci vogliono strumenti, risorse diversificate che permettano di allontanarsi dalla lezione frontale di sessanta minuti ormai inadeguata e dalle programmazioni che si ripetono di anno in anno indipendentemente da quali persone si abbiano di fronte. Basta col tirar fuori dal cappello a cilindro soluzioni fantasiose, invece di contribuire a promuovere una scuola che funzioni e di incentivare pratiche positive che già esistono. Sul piano della sperimentazione didattica si lavora ancora in modo troppo elitario e gli esiti sono poco conosciuti e poco riproducibili.
Le scuole secondarie di primo grado soffrono in modo particolare dal momento che non c’è un ripensamento del curricolo dello studente, che è generico e poco personalizzato. C’è molto da rivedere, occorre lavorare in modo da adeguare gli obiettivi ai vari livelli di apprendimento e innalzare o abbassare l’asticella delle richieste in base alle capacità dimostrate dai vari alunni, modulando in base all’evoluzione della persona e alla sua crescita.
Le prove Invalsi, doverose ed essenziali per avere un’immagine di alcuni aspetti degli apprendimenti, fotograferanno inevitabilmente un’involuzione rispetto all’anno precedente perché percepiamo in modo crescente che i ragazzi apprendono sempre di meno, faticano ad avere voti sufficienti, non conservano le informazioni o la memoria di lavoro e il nostro lavoro è spesso inefficace. La tendenza è destinata a rimanere negativa se non si agisce sulla promozione di una didattica sperimentale e condivisa, che risponda in modo più adeguato alle fragilità sempre più consistenti dei ragazzi e delle ragazze italiane che manifestano in maniera esponenziale problematiche relazionali, di apprendimento, di concentrazione e di memoria ogni anno di più.
Premiare il merito vuol dire dare valore ai modelli di scuola che funzionano, che sostengono i deboli e promuovono le eccellenze, fare in modo che si conoscano e si possano ripetere nelle varie realtà territoriali. Di questo si dovrebbe preoccupare il ministero.
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