Maestro, etimologicamente, deriva da “magis”, che significa più. Maestro è, o dovrebbe essere, chi ne sa di più e trasmette le sue conoscenze e le sue esperienze a chi ne sa di meno. Ma come si traduce, concretamente, quel “più”, nel caso di un maestro di pittura che insegni (altro verbo significativo: insegnante è chi lascia un segno, gli altri sono professori e contano meno) l’arte sua?
Mi è accaduto di riflettere su questo tema lavorando alla biografia Achille Funi. Un maestro a Brera, in corso di stampa da Scheiwiller-Sole 24ore. Funi (Ferrara 1890-Appiano Gentile 1972) non è certo stato il più importante fra i docenti dell’accademia milanese. Stilare classifiche di pittori e scultori è un esercizio discutibile e, tutto sommato, inutile. Inerpicandoci però su un tale terreno scivoloso, possiamo dire che Carrà, Wildt e Marino Marini, tutti titolari di cattedre braidensi, sono stati artisti maggiori di lui. Carrà, per esempio, ha influenzato mezza Italia e un bel po’ di Europa, prima con la sua pittura futurista, poi col suo realismo magico.
Eppure nessuno ha avuto tanti allievi di talento come Funi. Hanno studiato con lui protagonisti dell’informale come Morlotti, Ajmone, Giunni; interpreti dello spazialismo come Peverelli, Dova, Crippa; fondatori dell’arte cinetica e programmata del Gruppo T come Gianni Colombo, Boriani, Grazia Varisco; esponenti di una Pop Art colta e raffinata come Adami, Umberto Mariani, Forgioli, ma l’elenco potrebbe continuare. E già la diversità delle loro ricerche conferma l’efficacia del suo insegnamento. Perché – e forse questo è il punto – un maestro non è chi forma epigoni di se stesso, ma chi aiuta un giovane a diventare se stesso.
È indicativo, in questo senso, un episodio raccontato da Dino Buzzati. Nel giugno 1970 lo scrittore visita la mostra di Franca Fricker, una pittrice che era stata allieva dell’artista ferrarese. Nei suoi quadri, osserva Buzzati, non c’è il minimo ricordo del maestro. “Può darsi. Ma Funi mi ha insegnato una cosa importantissima: la serietà nel lavoro”, replica lei. Le fa eco, un quarto di secolo dopo, Valerio Adami: “Funi è stato un grande maestro; la finezza dell’intelligenza che ha saputo trasmettere non si riferisce al come fare dell’arte, ma al come leggere e vedere l’arte”.
Fornire dati, tecniche, saperi, ma rispettare l’individualità di ogni allievo: è stato questo il segreto di Funi. Lui, del resto, non desiderava una consonanza degli studenti con le proprie opere. “È il mestiere che bisogna conoscere, il mestiere fino in fondo. Poi, usciti di qui, facciano quello che vogliono, ma non c’è altro che la conoscenza della tecnica per fare l’artista; che prima di essere artista, cioè poeta, deve essere un artigiano con le carte in regola. Non credo in altre ricette” amava dire.
Non bisogna pensare però che la sua “scuola” sia stata una sorta di Salon eclettico e senz’anima. Al contrario un comun denominatore, almeno tra molti suoi allievi, c’era, ed era la ricerca di una pittura che non nascesse dalla sensazione e dall’impressione. In questo senso l’impronta di Funi è evidente. Nelle sue opere più alte, infatti, l’artista ferrarese ha saputo conciliare due caratteristiche a prima vista opposte: la concretezza di figure e cose e la narrazione di miti e leggende. Nei suoi quadri gli uomini esibiscono un corpo potente, le donne una figura ricolma, gli oggetti una evidente solidità. “Quando avrete imparato l’anatomia del corpo umano, avrete imparato la geometria della vita” diceva ai suoi allievi.
Il suo “realismo” si accompagna però a una sensibilità visionaria, che attinge ai miti classici. Funi non ha mai dimenticato la lezione degli affreschi di Palazzo Schifanoia, nella sua Ferrara, dove i protagonisti della mitologia sono più reali della realtà. “La mitologia è più vera della storia” diceva. Uomo di proverbiali silenzi e vaste letture, Funi conosceva fin da giovane la Bibbia, Omero, Cesare, Ariosto e Tasso. “Un uomo senza cultura è un uomo morto. Se non fosse per le mie letture cosa sarei io, oggi?” dirà pochi anni prima di morire.
Nonostante la sua cultura, però, ha saputo conservare la consapevolezza del mistero della pittura, che ha guardato sempre con stupore. Come aveva dichiarato all’amica Myrtia Ciarlantini: “Grande, misteriosa cosa questo rendere le forme. Rimane sempre un fatto magico”.
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